Il sole si riversava sulla moquette polverosa del salotto, illuminando particelle danzanti nell'aria pesante. Da quando l'iniziazione era avvenuta, i pomeriggi erano diventati una giostra senza fine, un carosello di nuovi giochi che zio Giulio, Lucio e Fabio inventavano con una creatività quasi febbrile, un'inesauribile riserva di perversioni da soddisfare. Non c'era un giorno uguale all'altro, ogni volta una sorpresa, un'aspettativa tesa che mi faceva vibrare la pelle. "Lucia, vieni qui, tesoro," la voce untuosa di zio Giulio mi chiamava dalla sua poltrona sfondata, gli occhietti furbi che mi scrutavano oltre la montatura spessa degli occhiali. Aveva sempre un sorrisetto stampato sul viso, uno di quelli che non arrivava mai agli occhi. Mi avvicinavo, il cuore che batteva un ritmo incerto, un misto di curiosità e un'ombra di timore. "Oggi abbiamo una sorpresa per te," Lucio, il più grande dei cugini, mi cingeva la vita con un braccio, la sua mano calda che si posava sulla mia anca. Il suo tocco era diverso da quello di zio Giulio, più audace, più diretto. Fabio, il più giovane, era già inginocchiato davanti al vecchio televisore, armeggiando con una videocassetta. "Questa volta, è un classico. Zio ha detto che devi imparare dai migliori." Un brivido mi percorse la schiena. "Che film è?" "Non è un film, è un manuale," zio Giulio rideva, una risata roca che gli faceva tremare la pancia. "E poi la pratica." I giorni scorrevano, un succedersi di pomeriggi sempre più spinti, un'educazione accelerata in un mondo di cui ignoravo l'esistenza. Le mie guance arrossivano, il mio corpo rispondeva in modi che prima non avrei mai immaginato. Era un vortice, e io ero caduta dentro. Poi, verso l'anno nuovo, qualcosa cambiò. Zio Giulio divenne cupo, le sue risate si spensero, sostituite da un'espressione tirata. Si era dedicato al gioco delle carte, e i pomeriggi non erano più dedicati a me. Giocava in sala con i suoi amici, uomini con facce dure e sigari puzzolenti. I miei cugini cominciarono a uscire più spesso, lasciandomi sola con gli sguardi pesanti di quegli uomini. Un pomeriggio, la porta della mia stanza si aprì con uno scatto. Era zio Giulio, il volto livido, gli occhi iniettati di sangue. "Lucia, dobbiamo parlare." La sua voce era roca, priva di ogni traccia di quel suo solito tono untuoso. Mi alzai dal letto, il libro che stavo leggendo mi scivolò dalle mani. "Che succede, zio?" "Ho perso. Ho perso tutto." Le parole gli uscirono tra i denti stretti. "Parecchi soldi. Non so come pagare i debiti." Sentii un nodo allo stomaco. "Ma... cosa c'entro io?" Si avvicinò, l'odore di alcool e fumo gli impregnava i vestiti. "C'entri, c'entri eccome. Tu sei la nostra risorsa, Lucia. La nostra unica risorsa." Un brivido freddo mi percorse. "Di cosa parli, zio?" I suoi occhi mi fissarono, uno sguardo che mi fece sentire nuda, esposta. "Uno di loro. Ha visto come ti muovi. Come sei diventata." Si fermò, un respiro pesante. "Vuole te. Per ripagare il debito." Il mio cuore si fermò. "No. No, zio, non posso." Mi afferrò il braccio, le sue dita si strinsero con una forza inaspettata. "Non hai scelta, Lucia. Siamo rovinati se non lo fai. E poi... non è la prima volta, no?" Un sorrisetto amaro gli deformò le labbra. "Hai imparato bene, vedo." Mi trascinò fuori dalla stanza, giù per il corridoio, verso una delle camere degli ospiti. La porta era socchiusa, e da dentro proveniva un odore nauseabondo, un misto di sudore stantio e qualcosa di dolce e stucchevole. "Entra." Mi spinse dentro. Sul letto, un sessantenne ciccione giaceva nudo, la pelle flaccida e chiazzata, i peli grigi che spuntavano ovunque. Il suo ventre enorme si sollevava e abbassava lentamente, e un sorriso sdentato gli si allargò sul viso quando mi vide. I suoi occhi erano piccoli, infossati, ma brillavano di un'avidità che mi fece raggelare il sangue. "Eccola, è tua." Zio Giulio mi sfilò la maglietta con uno strattone, poi i pantaloncini. La mia pelle si rabbrividì al contatto con l'aria fredda. "Fagli vedere cosa hai imparato." Mi sentii un oggetto, una merce di scambio. L'uomo sul letto grugnì, la sua mano si tese verso di me. L'odore era opprimente, mi graffiava la gola. Sapeva di sudore rancido, di alcol, di qualcosa di vecchio e malato. Mi avvicinai al letto, le gambe pesanti. Mi inginocchiai. La sua erezione era piccola, quasi ridicola in confronto alla sua massa, ma pulsava con una vita propria. Mi chinai, la mia bocca si aprì. La pelle era umida, appiccicosa. Sentii il sapore di qualcosa di amaro, metallico. Iniziai a muovere la lingua, a succhiare, ricordando tutti i gesti che mi avevano insegnato. Il mio stomaco si contorceva, ma continuavo, i suoi gemiti che mi risuonavano nelle orecchie. "Brava... brava ragazza..." ansimava, le sue dita che mi afferrava i capelli. Continuai finché non sentii la sua punta indurirsi ulteriormente, poi mi sollevai, mi misi a cavalcioni su di lui. La sua pancia enorme mi impediva di scendere completamente, il suo cazzo era troppo corto. Riusciva a malapena a far entrare la cappella. Ogni spinta era un tentativo faticoso, la sua pelle che sfrega contro la mia, il sudore che ci incollava. Non era piacevole, era un dovere. "Ah... sì... così..." I suoi occhi si chiusero, la sua faccia si contorse in una smorfia. Con una spinta finale, sentii qualcosa di caldo e denso schizzare dentro di me, un rivolo che mi scese lungo la coscia. Si lasciò cadere sul letto, ansimando. "Aspetta... un'altra cosa..." I suoi occhi si aprirono, mi fissarono con un'espressione strana. "Mi faresti... la pipì addosso?" Un brivido di disgusto mi percorse. "Cosa?" "Sì... la pipì... ti prego..." La sua voce era un sussurro supplicante. Eseguii, sentendo il calore del mio stesso liquido scivolare sulla sua pelle unta. Lui sospirò, un suono di profonda soddisfazione. Io un po' meno. Nei giorni seguenti, il rituale si ripeté. Non solo con lui, ma con altri uomini, amici di gioco di zio Giulio, uomini con sguardi affamati e mani avide. A volte erano due, a volte tutti e tre assieme, che sfruttavano il mio corpo come una bambola, un giocattolo per soddisfare tutte le loro fantasie più oscure. Non era più un divertimento, non c'era più quell'ombra di curiosità che mi aveva spinto all'inizio. Era diventato un dovere, un peso, una condanna. Ogni volta, dopo, mi sentivo svuotata, sporca, le mie carni indolenzite, la mia anima lacerata. Giugno arrivò presto, portando con sé il profumo dei fiori e un'aria di leggerezza che sembrava non toccarmi. Ero stata promossa, e la mamma aveva riavuto l'orario mattutino al lavoro. Potevo finalmente rimanere a casa con lei, lontano da zio Giulio e dai suoi "amici". Un sospiro di sollievo, una tregua, un flebile barlume di speranza. Al liceo, mi ritrovai a seguire la compagnia di mio cugino Fabio. Erano più grandi, diciassettenni, con un'aria spavalda e un'energia contagiosa. Mi portavano con loro, alle feste, alle uscite serali. Il sesso era tornato a essere divertente, un gioco spensierato, privo dell'ombra oppressiva del dovere. Era lì che incontrai Alfonso. Alfonso faceva parte della "gang band", un gruppo di ragazzi che si ritrovava spesso, e io ero quasi sempre l'unica ragazza. I suoi occhi scuri mi seguivano sempre, un sorriso sornione sulle labbra. C'era qualcosa di diverso in lui, un'intensità che mi attraeva. Una sera, eravamo in sei, in un vecchio capannone abbandonato alla periferia della città. L'aria era intrisa dell'odore di erba e birra. Le risate e le urla riempivano lo spazio. Ero sdraiata su un vecchio materasso, i miei vestiti sparsi intorno. A turno, i ragazzi si avvicinavano, i loro corpi giovani e muscolosi che mi circondavano. "Chi inizia?" la voce di Marco era roca, eccitata. Mi penetravano con una foga animalesca, uno dopo l'altro. Il piacere era selvaggio, primordiale, e mi lasciavo andare, i miei gemiti che si univano ai loro. Vedere Alfonso, in disparte, che mi guardava con un'espressione di desiderio misto a qualcosa di più profondo, mi eccitava in un modo nuovo. Ero il centro della loro attenzione, la loro dea del piacere. Alfonso fu l'ultimo. Si avvicinò, i suoi occhi scuri fissi nei miei, un sorriso che gli increspava le labbra. Ma prima che potesse fare una mossa, Marco lo fermò. "No, Alfonso. Questa volta è diverso." La sua voce era autoritaria. "Lei è nostra. Tu devi servirci." Alfonso lo guardò, un'ombra di sorpresa nei suoi occhi. "Cosa vuoi dire?" "Voglio dire che devi leccarla. E bere il nostro sperma." Marco ghignò, il suo sguardo che passava da me ad Alfonso, un lampo di sfida nei suoi occhi. Gli altri annuirono, alcuni con un'espressione di divertimento, altri con pura curiosità. Il volto di Alfonso si contrasse per un istante, una miscela di imbarazzo e rabbia, ma poi il suo sguardo tornò su di me. I miei occhi lo sfidarono, un invito silenzioso. Volevo vederlo, volevo che lo facesse. Si inginocchiò lentamente tra le mie gambe, il suo sguardo che non si staccava dal mio. I miei muscoli si contrassero, un'ondata di calore mi percorse. Il suo viso era a pochi centimetri dalla mia figa, ancora umida e pulsante per i precedenti assalti. Si chinò, la sua lingua calda e umida che mi accarezzava il clitoride, poi le grandi labbra, poi si immerse nella mia carne bagnata. Gemetti, un suono gutturale che mi sorprese. Le sue labbra si aprirono, la sua lingua si fece strada, leccando via gli umori, il sapore salato e ferroso dello sperma che si mescolava al mio. "Ah... sì..." ansimai, le mie dita che si aggrappavano ai suoi capelli. Mentre si muoveva, la sua posizione metteva in evidenza il suo buco, un'apertura scura e invitante. Marco, che era rimasto in piedi, lo notò. Un ghigno malizioso gli si dipinse sul volto. Senza dire una parola, si avvicinò ad Alfonso, il suo membro turgido e pulsante che spuntava dai pantaloni abbassati. "Ehi, Alfonso," disse Marco, la sua voce bassa, quasi un sibilo. "Non vorrai mica lasciare che il tuo culo si senta escluso, vero?" Alfonso si irrigidì, il suo corpo che tremava leggermente. Cercò di girarsi, ma Marco era già dietro di lui, la sua mano che gli afferrava i fianchi, spingendolo più in avanti. "No... Marco..." la voce di Alfonso era soffocata, un misto di protesta e rassegnazione. Marco non gli diede il tempo di reagire. Con un'unica, decisa spinta, il suo cazzo si infilò nel buco di Alfonso. "Ah!" Alfonso urlò, la sua testa che si scagliò all'indietro, i suoi occhi che si spalancarono in un misto di dolore e sorpresa. Ma Marco non si fermò. Più lo sfondava, più Alfonso gemeva, e più Marco lo spingeva forte. E mentre Marco lo penetrava con forza, Alfonso continuava a leccarmi, la sua lingua che si muoveva freneticamente, quasi per sfogare la sua frustrazione, la sua umiliazione, il suo piacere. I suoi gemiti, ora, erano un misto di dolore e godimento, un suono che mi eccitava in un modo perverso. "Sì... così... succhia... succhia forte..." sussurrai, le mie mani che gli afferravo i capelli, tirandoli leggermente. Il suo corpo era teso, i muscoli contratti. Marco lo colpiva con spinte profonde, il suo culo che si muoveva a ogni affondo. Sentii il suono umido e schioccante delle loro carni che si scontravano. L'odore di sperma, sudore e eccitazione riempiva l'aria. "Ah... ah... Marco..." Alfonso gemeva, la sua voce che si trasformava in un lamento. Il suo corpo si scosse, un brivido lo percorse. Contemporaneamente, Marco si irrigidì dietro di lui, un urlo gutturale gli sfuggì dalla gola. Vennero insieme, un'esplosione di piacere che li lasciò tremanti. Marco si ritirò, il suo cazzo gocciolante che gli schizzò sulla schiena. Poi, con un gesto inaspettato, girò Alfonso verso di me, mostrandomi lo sperma che gli usciva dal buco, un rivolo bianco e denso che si mescolava al suo sangue. Alfonso era lì, in ginocchio, il suo viso rosso e sudato, i suoi occhi ancora pieni di un misto di dolore e piacere. Il suo sguardo incontrò il mio, e in quel momento, capii. Da quel giorno, cominciammo a frequentarci. Non era un amore convenzionale, era qualcosa di più oscuro, più intenso. Era un legame fatto di segreti, di perversioni, di un piacere che trovavamo nel superare i limiti. Ci scopavamo ovunque, in ogni momento, in ogni posizione. La mia pussy era la sua casa, il suo cazzo il mio giocattolo. Le sue dita forti che mi accarezzavano il clitoride, la sua lingua che mi esplorava, mi facevano gemere di puro piacere. "Sei mia, Lucia," mi sussurrava, la sua voce roca, mentre mi penetrava con forza. "Solo mia." Ma c'era un aspetto del nostro rapporto che mi intrigava e mi eccitava particolarmente. Ogni tanto, mi chiedeva di cornificarlo, di andare con altri ragazzi, e poi di raccontargli ogni singolo dettaglio. Voleva sapere tutto, ogni tocco, ogni bacio, ogni penetrazione. "Dimmi, Lucia," mi sussurrava all'orecchio, mentre i miei fianchi si muovevano contro i suoi, "come si è sentito? Era più grande del mio? Ti ha fatto venire?" E io gli raccontavo, con un lusso di dettagli che lo facevano impazzire. Vederlo eccitarsi con i miei racconti, con la mia infedeltà, era un'ulteriore fonte di piacere per me. A volte, veniva anche a guardare, nascosto nell'ombra, i suoi occhi scuri che mi seguivano, il suo respiro che si faceva affannoso. Il mio quindicesimo compleanno si avvicinava, e con esso, un'idea che mi ronzava in testa da settimane. Volevo qualcosa di speciale, qualcosa che segnasse il nostro legame, la nostra perversione. "Alfonso," gli dissi una sera, mentre giacevamo nudi sul mio letto, i nostri corpi ancora tremanti per l'orgasmo appena raggiunto. "Per il mio compleanno, voglio un regalo." Mi guardò, i suoi occhi scuri che brillavano nella penombra. "Qualsiasi cosa tu voglia, Lucia." "Voglio essere inculata. Ma non da sola." Le mie dita si mossero sul suo petto, scendendo verso il suo ventre, poi più in basso. "Voglio essere inculata assieme a te." Un sorriso lento e sensuale gli si disegnò sulle labbra. "Interessante." Trovammo due amici disposti a farlo con noi, due ragazzi che erano stati con noi in altre occasioni, che conoscevano i nostri giochi. Ci incontrammo in un appartamento vuoto, l'aria pesante di aspettativa. "Allora, Lucia," disse uno dei ragazzi, Marco, lo stesso Marco della prima volta, la sua voce che tradiva un'eccitazione contenuta. "Qual è il piano?" "Io e Alfonso," dissi, il mio cuore che batteva un ritmo frenetico, "a pecora. Uno davanti all'altra." I ragazzi si guardarono, un lampo di comprensione nei loro occhi. Ci mettemmo a pecora, io davanti ad Alfonso, i nostri culi esposti, invitanti. Sentii il respiro di Alfonso sulla mia schiena, il suo corpo che tremava leggermente contro il mio. I due ragazzi si avvicinarono, i loro membri turgidi e pulsanti. "Pronta, Lucia?" la voce di Marco era un sussurro. "Sempre," risposi, la mia voce un po' tremante. Sentii la punta del suo cazzo che mi sfiorava l'ano, poi una spinta decisa. "Ah!" Un dolore acuto mi attraversò, un dolore che si mescolava a un piacere perverso. Contemporaneamente, sentii il gemito soffocato di Alfonso dietro di me, il suo corpo che si contraeva. "Respira, Lucia," la voce di Alfonso era roca, "respira." Il suo cazzo si fece strada, lentamente, dolorosamente, ma poi il dolore si trasformò in una sensazione di pienezza, di distensione. Marco mi penetrava con forza, le sue spinte profonde e ritmiche. Dietro di noi, sentii i gemiti di Alfonso, i suoni umidi e schioccanti delle loro carni che si scontravano. "Fa male..." sussurrai, le mie dita che si stringevano sul materasso. Alfonso si mosse, la sua testa che si chinò sulla mia spalla. Le sue labbra calde si posarono sulle mie, un bacio intenso, profondo, che mi fece dimenticare il dolore, o almeno lo rese sopportabile. La sua lingua si intrecciò con la mia, un ballo sensuale, mentre i nostri culi venivano sfondati. "Ti amo, Lucia," mi sussurrò tra un bacio e l'altro, il suo fiato caldo sul mio viso. "Anch'io, Alfonso," risposi, il mio cuore che batteva all'impazzata. I nostri corpi si muovevano all'unisono, un'unica massa di carne e desiderio. I gemiti, i sospiri, i suoni umidi, riempivano l'aria. Era un'esperienza intensa, dolorosa e incredibilmente eccitante. Era il nostro modo di amarci, il nostro modo di essere. E in quel momento, tra il dolore e il piacere, tra la vergogna e l'estasi, sapevo di aver trovato il mio posto, il mio Alfonso, la mia perversione. E non avrei mai voluto che finisse.
ALFONSO E LUCIA 2
ALFONSO E LUCIA 2
Il sole si riversava sulla moquette polverosa del salotto, illuminando particelle danzanti nell'aria pesante. Da quando l'iniziazione era avvenuta, i pomeriggi erano diventati una giostra senza fine, un carosello di nuovi giochi che zio Giulio, Lucio e Fabio inventavano con una creatività quasi febbrile, un'inesauribile riserva di perversioni da soddisfare. Non c'era un giorno uguale all'altro, ogni volta una sorpresa, un'aspettativa tesa che mi faceva vibrare la pelle. "Lucia, vieni qui, tesoro," la voce untuosa di zio Giulio mi chiamava dalla sua poltrona sfondata, gli occhietti furbi che mi scrutavano oltre la montatura spessa degli occhiali. Aveva sempre un sorrisetto stampato sul viso, uno di quelli che non arrivava mai agli occhi. Mi avvicinavo, il cuore che batteva un ritmo incerto, un misto di curiosità e un'ombra di timore. "Oggi abbiamo una sorpresa per te," Lucio, il più grande dei cugini, mi cingeva la vita con un braccio, la sua mano calda che si posava sulla mia anca. Il suo tocco era diverso da quello di zio Giulio, più audace, più diretto. Fabio, il più giovane, era già inginocchiato davanti al vecchio televisore, armeggiando con una videocassetta. "Questa volta, è un classico. Zio ha detto che devi imparare dai migliori." Un brivido mi percorse la schiena. "Che film è?" "Non è un film, è un manuale," zio Giulio rideva, una risata roca che gli faceva tremare la pancia. "E poi la pratica." I giorni scorrevano, un succedersi di pomeriggi sempre più spinti, un'educazione accelerata in un mondo di cui ignoravo l'esistenza. Le mie guance arrossivano, il mio corpo rispondeva in modi che prima non avrei mai immaginato. Era un vortice, e io ero caduta dentro. Poi, verso l'anno nuovo, qualcosa cambiò. Zio Giulio divenne cupo, le sue risate si spensero, sostituite da un'espressione tirata. Si era dedicato al gioco delle carte, e i pomeriggi non erano più dedicati a me. Giocava in sala con i suoi amici, uomini con facce dure e sigari puzzolenti. I miei cugini cominciarono a uscire più spesso, lasciandomi sola con gli sguardi pesanti di quegli uomini. Un pomeriggio, la porta della mia stanza si aprì con uno scatto. Era zio Giulio, il volto livido, gli occhi iniettati di sangue. "Lucia, dobbiamo parlare." La sua voce era roca, priva di ogni traccia di quel suo solito tono untuoso. Mi alzai dal letto, il libro che stavo leggendo mi scivolò dalle mani. "Che succede, zio?" "Ho perso. Ho perso tutto." Le parole gli uscirono tra i denti stretti. "Parecchi soldi. Non so come pagare i debiti." Sentii un nodo allo stomaco. "Ma... cosa c'entro io?" Si avvicinò, l'odore di alcool e fumo gli impregnava i vestiti. "C'entri, c'entri eccome. Tu sei la nostra risorsa, Lucia. La nostra unica risorsa." Un brivido freddo mi percorse. "Di cosa parli, zio?" I suoi occhi mi fissarono, uno sguardo che mi fece sentire nuda, esposta. "Uno di loro. Ha visto come ti muovi. Come sei diventata." Si fermò, un respiro pesante. "Vuole te. Per ripagare il debito." Il mio cuore si fermò. "No. No, zio, non posso." Mi afferrò il braccio, le sue dita si strinsero con una forza inaspettata. "Non hai scelta, Lucia. Siamo rovinati se non lo fai. E poi... non è la prima volta, no?" Un sorrisetto amaro gli deformò le labbra. "Hai imparato bene, vedo." Mi trascinò fuori dalla stanza, giù per il corridoio, verso una delle camere degli ospiti. La porta era socchiusa, e da dentro proveniva un odore nauseabondo, un misto di sudore stantio e qualcosa di dolce e stucchevole. "Entra." Mi spinse dentro. Sul letto, un sessantenne ciccione giaceva nudo, la pelle flaccida e chiazzata, i peli grigi che spuntavano ovunque. Il suo ventre enorme si sollevava e abbassava lentamente, e un sorriso sdentato gli si allargò sul viso quando mi vide. I suoi occhi erano piccoli, infossati, ma brillavano di un'avidità che mi fece raggelare il sangue. "Eccola, è tua." Zio Giulio mi sfilò la maglietta con uno strattone, poi i pantaloncini. La mia pelle si rabbrividì al contatto con l'aria fredda. "Fagli vedere cosa hai imparato." Mi sentii un oggetto, una merce di scambio. L'uomo sul letto grugnì, la sua mano si tese verso di me. L'odore era opprimente, mi graffiava la gola. Sapeva di sudore rancido, di alcol, di qualcosa di vecchio e malato. Mi avvicinai al letto, le gambe pesanti. Mi inginocchiai. La sua erezione era piccola, quasi ridicola in confronto alla sua massa, ma pulsava con una vita propria. Mi chinai, la mia bocca si aprì. La pelle era umida, appiccicosa. Sentii il sapore di qualcosa di amaro, metallico. Iniziai a muovere la lingua, a succhiare, ricordando tutti i gesti che mi avevano insegnato. Il mio stomaco si contorceva, ma continuavo, i suoi gemiti che mi risuonavano nelle orecchie. "Brava... brava ragazza..." ansimava, le sue dita che mi afferrava i capelli. Continuai finché non sentii la sua punta indurirsi ulteriormente, poi mi sollevai, mi misi a cavalcioni su di lui. La sua pancia enorme mi impediva di scendere completamente, il suo cazzo era troppo corto. Riusciva a malapena a far entrare la cappella. Ogni spinta era un tentativo faticoso, la sua pelle che sfrega contro la mia, il sudore che ci incollava. Non era piacevole, era un dovere. "Ah... sì... così..." I suoi occhi si chiusero, la sua faccia si contorse in una smorfia. Con una spinta finale, sentii qualcosa di caldo e denso schizzare dentro di me, un rivolo che mi scese lungo la coscia. Si lasciò cadere sul letto, ansimando. "Aspetta... un'altra cosa..." I suoi occhi si aprirono, mi fissarono con un'espressione strana. "Mi faresti... la pipì addosso?" Un brivido di disgusto mi percorse. "Cosa?" "Sì... la pipì... ti prego..." La sua voce era un sussurro supplicante. Eseguii, sentendo il calore del mio stesso liquido scivolare sulla sua pelle unta. Lui sospirò, un suono di profonda soddisfazione. Io un po' meno. Nei giorni seguenti, il rituale si ripeté. Non solo con lui, ma con altri uomini, amici di gioco di zio Giulio, uomini con sguardi affamati e mani avide. A volte erano due, a volte tutti e tre assieme, che sfruttavano il mio corpo come una bambola, un giocattolo per soddisfare tutte le loro fantasie più oscure. Non era più un divertimento, non c'era più quell'ombra di curiosità che mi aveva spinto all'inizio. Era diventato un dovere, un peso, una condanna. Ogni volta, dopo, mi sentivo svuotata, sporca, le mie carni indolenzite, la mia anima lacerata. Giugno arrivò presto, portando con sé il profumo dei fiori e un'aria di leggerezza che sembrava non toccarmi. Ero stata promossa, e la mamma aveva riavuto l'orario mattutino al lavoro. Potevo finalmente rimanere a casa con lei, lontano da zio Giulio e dai suoi "amici". Un sospiro di sollievo, una tregua, un flebile barlume di speranza. Al liceo, mi ritrovai a seguire la compagnia di mio cugino Fabio. Erano più grandi, diciassettenni, con un'aria spavalda e un'energia contagiosa. Mi portavano con loro, alle feste, alle uscite serali. Il sesso era tornato a essere divertente, un gioco spensierato, privo dell'ombra oppressiva del dovere. Era lì che incontrai Alfonso. Alfonso faceva parte della "gang band", un gruppo di ragazzi che si ritrovava spesso, e io ero quasi sempre l'unica ragazza. I suoi occhi scuri mi seguivano sempre, un sorriso sornione sulle labbra. C'era qualcosa di diverso in lui, un'intensità che mi attraeva. Una sera, eravamo in sei, in un vecchio capannone abbandonato alla periferia della città. L'aria era intrisa dell'odore di erba e birra. Le risate e le urla riempivano lo spazio. Ero sdraiata su un vecchio materasso, i miei vestiti sparsi intorno. A turno, i ragazzi si avvicinavano, i loro corpi giovani e muscolosi che mi circondavano. "Chi inizia?" la voce di Marco era roca, eccitata. Mi penetravano con una foga animalesca, uno dopo l'altro. Il piacere era selvaggio, primordiale, e mi lasciavo andare, i miei gemiti che si univano ai loro. Vedere Alfonso, in disparte, che mi guardava con un'espressione di desiderio misto a qualcosa di più profondo, mi eccitava in un modo nuovo. Ero il centro della loro attenzione, la loro dea del piacere. Alfonso fu l'ultimo. Si avvicinò, i suoi occhi scuri fissi nei miei, un sorriso che gli increspava le labbra. Ma prima che potesse fare una mossa, Marco lo fermò. "No, Alfonso. Questa volta è diverso." La sua voce era autoritaria. "Lei è nostra. Tu devi servirci." Alfonso lo guardò, un'ombra di sorpresa nei suoi occhi. "Cosa vuoi dire?" "Voglio dire che devi leccarla. E bere il nostro sperma." Marco ghignò, il suo sguardo che passava da me ad Alfonso, un lampo di sfida nei suoi occhi. Gli altri annuirono, alcuni con un'espressione di divertimento, altri con pura curiosità. Il volto di Alfonso si contrasse per un istante, una miscela di imbarazzo e rabbia, ma poi il suo sguardo tornò su di me. I miei occhi lo sfidarono, un invito silenzioso. Volevo vederlo, volevo che lo facesse. Si inginocchiò lentamente tra le mie gambe, il suo sguardo che non si staccava dal mio. I miei muscoli si contrassero, un'ondata di calore mi percorse. Il suo viso era a pochi centimetri dalla mia figa, ancora umida e pulsante per i precedenti assalti. Si chinò, la sua lingua calda e umida che mi accarezzava il clitoride, poi le grandi labbra, poi si immerse nella mia carne bagnata. Gemetti, un suono gutturale che mi sorprese. Le sue labbra si aprirono, la sua lingua si fece strada, leccando via gli umori, il sapore salato e ferroso dello sperma che si mescolava al mio. "Ah... sì..." ansimai, le mie dita che si aggrappavano ai suoi capelli. Mentre si muoveva, la sua posizione metteva in evidenza il suo buco, un'apertura scura e invitante. Marco, che era rimasto in piedi, lo notò. Un ghigno malizioso gli si dipinse sul volto. Senza dire una parola, si avvicinò ad Alfonso, il suo membro turgido e pulsante che spuntava dai pantaloni abbassati. "Ehi, Alfonso," disse Marco, la sua voce bassa, quasi un sibilo. "Non vorrai mica lasciare che il tuo culo si senta escluso, vero?" Alfonso si irrigidì, il suo corpo che tremava leggermente. Cercò di girarsi, ma Marco era già dietro di lui, la sua mano che gli afferrava i fianchi, spingendolo più in avanti. "No... Marco..." la voce di Alfonso era soffocata, un misto di protesta e rassegnazione. Marco non gli diede il tempo di reagire. Con un'unica, decisa spinta, il suo cazzo si infilò nel buco di Alfonso. "Ah!" Alfonso urlò, la sua testa che si scagliò all'indietro, i suoi occhi che si spalancarono in un misto di dolore e sorpresa. Ma Marco non si fermò. Più lo sfondava, più Alfonso gemeva, e più Marco lo spingeva forte. E mentre Marco lo penetrava con forza, Alfonso continuava a leccarmi, la sua lingua che si muoveva freneticamente, quasi per sfogare la sua frustrazione, la sua umiliazione, il suo piacere. I suoi gemiti, ora, erano un misto di dolore e godimento, un suono che mi eccitava in un modo perverso. "Sì... così... succhia... succhia forte..." sussurrai, le mie mani che gli afferravo i capelli, tirandoli leggermente. Il suo corpo era teso, i muscoli contratti. Marco lo colpiva con spinte profonde, il suo culo che si muoveva a ogni affondo. Sentii il suono umido e schioccante delle loro carni che si scontravano. L'odore di sperma, sudore e eccitazione riempiva l'aria. "Ah... ah... Marco..." Alfonso gemeva, la sua voce che si trasformava in un lamento. Il suo corpo si scosse, un brivido lo percorse. Contemporaneamente, Marco si irrigidì dietro di lui, un urlo gutturale gli sfuggì dalla gola. Vennero insieme, un'esplosione di piacere che li lasciò tremanti. Marco si ritirò, il suo cazzo gocciolante che gli schizzò sulla schiena. Poi, con un gesto inaspettato, girò Alfonso verso di me, mostrandomi lo sperma che gli usciva dal buco, un rivolo bianco e denso che si mescolava al suo sangue. Alfonso era lì, in ginocchio, il suo viso rosso e sudato, i suoi occhi ancora pieni di un misto di dolore e piacere. Il suo sguardo incontrò il mio, e in quel momento, capii. Da quel giorno, cominciammo a frequentarci. Non era un amore convenzionale, era qualcosa di più oscuro, più intenso. Era un legame fatto di segreti, di perversioni, di un piacere che trovavamo nel superare i limiti. Ci scopavamo ovunque, in ogni momento, in ogni posizione. La mia pussy era la sua casa, il suo cazzo il mio giocattolo. Le sue dita forti che mi accarezzavano il clitoride, la sua lingua che mi esplorava, mi facevano gemere di puro piacere. "Sei mia, Lucia," mi sussurrava, la sua voce roca, mentre mi penetrava con forza. "Solo mia." Ma c'era un aspetto del nostro rapporto che mi intrigava e mi eccitava particolarmente. Ogni tanto, mi chiedeva di cornificarlo, di andare con altri ragazzi, e poi di raccontargli ogni singolo dettaglio. Voleva sapere tutto, ogni tocco, ogni bacio, ogni penetrazione. "Dimmi, Lucia," mi sussurrava all'orecchio, mentre i miei fianchi si muovevano contro i suoi, "come si è sentito? Era più grande del mio? Ti ha fatto venire?" E io gli raccontavo, con un lusso di dettagli che lo facevano impazzire. Vederlo eccitarsi con i miei racconti, con la mia infedeltà, era un'ulteriore fonte di piacere per me. A volte, veniva anche a guardare, nascosto nell'ombra, i suoi occhi scuri che mi seguivano, il suo respiro che si faceva affannoso. Il mio quindicesimo compleanno si avvicinava, e con esso, un'idea che mi ronzava in testa da settimane. Volevo qualcosa di speciale, qualcosa che segnasse il nostro legame, la nostra perversione. "Alfonso," gli dissi una sera, mentre giacevamo nudi sul mio letto, i nostri corpi ancora tremanti per l'orgasmo appena raggiunto. "Per il mio compleanno, voglio un regalo." Mi guardò, i suoi occhi scuri che brillavano nella penombra. "Qualsiasi cosa tu voglia, Lucia." "Voglio essere inculata. Ma non da sola." Le mie dita si mossero sul suo petto, scendendo verso il suo ventre, poi più in basso. "Voglio essere inculata assieme a te." Un sorriso lento e sensuale gli si disegnò sulle labbra. "Interessante." Trovammo due amici disposti a farlo con noi, due ragazzi che erano stati con noi in altre occasioni, che conoscevano i nostri giochi. Ci incontrammo in un appartamento vuoto, l'aria pesante di aspettativa. "Allora, Lucia," disse uno dei ragazzi, Marco, lo stesso Marco della prima volta, la sua voce che tradiva un'eccitazione contenuta. "Qual è il piano?" "Io e Alfonso," dissi, il mio cuore che batteva un ritmo frenetico, "a pecora. Uno davanti all'altra." I ragazzi si guardarono, un lampo di comprensione nei loro occhi. Ci mettemmo a pecora, io davanti ad Alfonso, i nostri culi esposti, invitanti. Sentii il respiro di Alfonso sulla mia schiena, il suo corpo che tremava leggermente contro il mio. I due ragazzi si avvicinarono, i loro membri turgidi e pulsanti. "Pronta, Lucia?" la voce di Marco era un sussurro. "Sempre," risposi, la mia voce un po' tremante. Sentii la punta del suo cazzo che mi sfiorava l'ano, poi una spinta decisa. "Ah!" Un dolore acuto mi attraversò, un dolore che si mescolava a un piacere perverso. Contemporaneamente, sentii il gemito soffocato di Alfonso dietro di me, il suo corpo che si contraeva. "Respira, Lucia," la voce di Alfonso era roca, "respira." Il suo cazzo si fece strada, lentamente, dolorosamente, ma poi il dolore si trasformò in una sensazione di pienezza, di distensione. Marco mi penetrava con forza, le sue spinte profonde e ritmiche. Dietro di noi, sentii i gemiti di Alfonso, i suoni umidi e schioccanti delle loro carni che si scontravano. "Fa male..." sussurrai, le mie dita che si stringevano sul materasso. Alfonso si mosse, la sua testa che si chinò sulla mia spalla. Le sue labbra calde si posarono sulle mie, un bacio intenso, profondo, che mi fece dimenticare il dolore, o almeno lo rese sopportabile. La sua lingua si intrecciò con la mia, un ballo sensuale, mentre i nostri culi venivano sfondati. "Ti amo, Lucia," mi sussurrò tra un bacio e l'altro, il suo fiato caldo sul mio viso. "Anch'io, Alfonso," risposi, il mio cuore che batteva all'impazzata. I nostri corpi si muovevano all'unisono, un'unica massa di carne e desiderio. I gemiti, i sospiri, i suoni umidi, riempivano l'aria. Era un'esperienza intensa, dolorosa e incredibilmente eccitante. Era il nostro modo di amarci, il nostro modo di essere. E in quel momento, tra il dolore e il piacere, tra la vergogna e l'estasi, sapevo di aver trovato il mio posto, il mio Alfonso, la mia perversione. E non avrei mai voluto che finisse.
Il sole si riversava sulla moquette polverosa del salotto, illuminando particelle danzanti nell'aria pesante. Da quando l'iniziazione era avvenuta, i pomeriggi erano diventati una giostra senza fine, un carosello di nuovi giochi che zio Giulio, Lucio e Fabio inventavano con una creatività quasi febbrile, un'inesauribile riserva di perversioni da soddisfare. Non c'era un giorno uguale all'altro, ogni volta una sorpresa, un'aspettativa tesa che mi faceva vibrare la pelle. "Lucia, vieni qui, tesoro," la voce untuosa di zio Giulio mi chiamava dalla sua poltrona sfondata, gli occhietti furbi che mi scrutavano oltre la montatura spessa degli occhiali. Aveva sempre un sorrisetto stampato sul viso, uno di quelli che non arrivava mai agli occhi. Mi avvicinavo, il cuore che batteva un ritmo incerto, un misto di curiosità e un'ombra di timore. "Oggi abbiamo una sorpresa per te," Lucio, il più grande dei cugini, mi cingeva la vita con un braccio, la sua mano calda che si posava sulla mia anca. Il suo tocco era diverso da quello di zio Giulio, più audace, più diretto. Fabio, il più giovane, era già inginocchiato davanti al vecchio televisore, armeggiando con una videocassetta. "Questa volta, è un classico. Zio ha detto che devi imparare dai migliori." Un brivido mi percorse la schiena. "Che film è?" "Non è un film, è un manuale," zio Giulio rideva, una risata roca che gli faceva tremare la pancia. "E poi la pratica." I giorni scorrevano, un succedersi di pomeriggi sempre più spinti, un'educazione accelerata in un mondo di cui ignoravo l'esistenza. Le mie guance arrossivano, il mio corpo rispondeva in modi che prima non avrei mai immaginato. Era un vortice, e io ero caduta dentro. Poi, verso l'anno nuovo, qualcosa cambiò. Zio Giulio divenne cupo, le sue risate si spensero, sostituite da un'espressione tirata. Si era dedicato al gioco delle carte, e i pomeriggi non erano più dedicati a me. Giocava in sala con i suoi amici, uomini con facce dure e sigari puzzolenti. I miei cugini cominciarono a uscire più spesso, lasciandomi sola con gli sguardi pesanti di quegli uomini. Un pomeriggio, la porta della mia stanza si aprì con uno scatto. Era zio Giulio, il volto livido, gli occhi iniettati di sangue. "Lucia, dobbiamo parlare." La sua voce era roca, priva di ogni traccia di quel suo solito tono untuoso. Mi alzai dal letto, il libro che stavo leggendo mi scivolò dalle mani. "Che succede, zio?" "Ho perso. Ho perso tutto." Le parole gli uscirono tra i denti stretti. "Parecchi soldi. Non so come pagare i debiti." Sentii un nodo allo stomaco. "Ma... cosa c'entro io?" Si avvicinò, l'odore di alcool e fumo gli impregnava i vestiti. "C'entri, c'entri eccome. Tu sei la nostra risorsa, Lucia. La nostra unica risorsa." Un brivido freddo mi percorse. "Di cosa parli, zio?" I suoi occhi mi fissarono, uno sguardo che mi fece sentire nuda, esposta. "Uno di loro. Ha visto come ti muovi. Come sei diventata." Si fermò, un respiro pesante. "Vuole te. Per ripagare il debito." Il mio cuore si fermò. "No. No, zio, non posso." Mi afferrò il braccio, le sue dita si strinsero con una forza inaspettata. "Non hai scelta, Lucia. Siamo rovinati se non lo fai. E poi... non è la prima volta, no?" Un sorrisetto amaro gli deformò le labbra. "Hai imparato bene, vedo." Mi trascinò fuori dalla stanza, giù per il corridoio, verso una delle camere degli ospiti. La porta era socchiusa, e da dentro proveniva un odore nauseabondo, un misto di sudore stantio e qualcosa di dolce e stucchevole. "Entra." Mi spinse dentro. Sul letto, un sessantenne ciccione giaceva nudo, la pelle flaccida e chiazzata, i peli grigi che spuntavano ovunque. Il suo ventre enorme si sollevava e abbassava lentamente, e un sorriso sdentato gli si allargò sul viso quando mi vide. I suoi occhi erano piccoli, infossati, ma brillavano di un'avidità che mi fece raggelare il sangue. "Eccola, è tua." Zio Giulio mi sfilò la maglietta con uno strattone, poi i pantaloncini. La mia pelle si rabbrividì al contatto con l'aria fredda. "Fagli vedere cosa hai imparato." Mi sentii un oggetto, una merce di scambio. L'uomo sul letto grugnì, la sua mano si tese verso di me. L'odore era opprimente, mi graffiava la gola. Sapeva di sudore rancido, di alcol, di qualcosa di vecchio e malato. Mi avvicinai al letto, le gambe pesanti. Mi inginocchiai. La sua erezione era piccola, quasi ridicola in confronto alla sua massa, ma pulsava con una vita propria. Mi chinai, la mia bocca si aprì. La pelle era umida, appiccicosa. Sentii il sapore di qualcosa di amaro, metallico. Iniziai a muovere la lingua, a succhiare, ricordando tutti i gesti che mi avevano insegnato. Il mio stomaco si contorceva, ma continuavo, i suoi gemiti che mi risuonavano nelle orecchie. "Brava... brava ragazza..." ansimava, le sue dita che mi afferrava i capelli. Continuai finché non sentii la sua punta indurirsi ulteriormente, poi mi sollevai, mi misi a cavalcioni su di lui. La sua pancia enorme mi impediva di scendere completamente, il suo cazzo era troppo corto. Riusciva a malapena a far entrare la cappella. Ogni spinta era un tentativo faticoso, la sua pelle che sfrega contro la mia, il sudore che ci incollava. Non era piacevole, era un dovere. "Ah... sì... così..." I suoi occhi si chiusero, la sua faccia si contorse in una smorfia. Con una spinta finale, sentii qualcosa di caldo e denso schizzare dentro di me, un rivolo che mi scese lungo la coscia. Si lasciò cadere sul letto, ansimando. "Aspetta... un'altra cosa..." I suoi occhi si aprirono, mi fissarono con un'espressione strana. "Mi faresti... la pipì addosso?" Un brivido di disgusto mi percorse. "Cosa?" "Sì... la pipì... ti prego..." La sua voce era un sussurro supplicante. Eseguii, sentendo il calore del mio stesso liquido scivolare sulla sua pelle unta. Lui sospirò, un suono di profonda soddisfazione. Io un po' meno. Nei giorni seguenti, il rituale si ripeté. Non solo con lui, ma con altri uomini, amici di gioco di zio Giulio, uomini con sguardi affamati e mani avide. A volte erano due, a volte tutti e tre assieme, che sfruttavano il mio corpo come una bambola, un giocattolo per soddisfare tutte le loro fantasie più oscure. Non era più un divertimento, non c'era più quell'ombra di curiosità che mi aveva spinto all'inizio. Era diventato un dovere, un peso, una condanna. Ogni volta, dopo, mi sentivo svuotata, sporca, le mie carni indolenzite, la mia anima lacerata. Giugno arrivò presto, portando con sé il profumo dei fiori e un'aria di leggerezza che sembrava non toccarmi. Ero stata promossa, e la mamma aveva riavuto l'orario mattutino al lavoro. Potevo finalmente rimanere a casa con lei, lontano da zio Giulio e dai suoi "amici". Un sospiro di sollievo, una tregua, un flebile barlume di speranza. Al liceo, mi ritrovai a seguire la compagnia di mio cugino Fabio. Erano più grandi, diciassettenni, con un'aria spavalda e un'energia contagiosa. Mi portavano con loro, alle feste, alle uscite serali. Il sesso era tornato a essere divertente, un gioco spensierato, privo dell'ombra oppressiva del dovere. Era lì che incontrai Alfonso. Alfonso faceva parte della "gang band", un gruppo di ragazzi che si ritrovava spesso, e io ero quasi sempre l'unica ragazza. I suoi occhi scuri mi seguivano sempre, un sorriso sornione sulle labbra. C'era qualcosa di diverso in lui, un'intensità che mi attraeva. Una sera, eravamo in sei, in un vecchio capannone abbandonato alla periferia della città. L'aria era intrisa dell'odore di erba e birra. Le risate e le urla riempivano lo spazio. Ero sdraiata su un vecchio materasso, i miei vestiti sparsi intorno. A turno, i ragazzi si avvicinavano, i loro corpi giovani e muscolosi che mi circondavano. "Chi inizia?" la voce di Marco era roca, eccitata. Mi penetravano con una foga animalesca, uno dopo l'altro. Il piacere era selvaggio, primordiale, e mi lasciavo andare, i miei gemiti che si univano ai loro. Vedere Alfonso, in disparte, che mi guardava con un'espressione di desiderio misto a qualcosa di più profondo, mi eccitava in un modo nuovo. Ero il centro della loro attenzione, la loro dea del piacere. Alfonso fu l'ultimo. Si avvicinò, i suoi occhi scuri fissi nei miei, un sorriso che gli increspava le labbra. Ma prima che potesse fare una mossa, Marco lo fermò. "No, Alfonso. Questa volta è diverso." La sua voce era autoritaria. "Lei è nostra. Tu devi servirci." Alfonso lo guardò, un'ombra di sorpresa nei suoi occhi. "Cosa vuoi dire?" "Voglio dire che devi leccarla. E bere il nostro sperma." Marco ghignò, il suo sguardo che passava da me ad Alfonso, un lampo di sfida nei suoi occhi. Gli altri annuirono, alcuni con un'espressione di divertimento, altri con pura curiosità. Il volto di Alfonso si contrasse per un istante, una miscela di imbarazzo e rabbia, ma poi il suo sguardo tornò su di me. I miei occhi lo sfidarono, un invito silenzioso. Volevo vederlo, volevo che lo facesse. Si inginocchiò lentamente tra le mie gambe, il suo sguardo che non si staccava dal mio. I miei muscoli si contrassero, un'ondata di calore mi percorse. Il suo viso era a pochi centimetri dalla mia figa, ancora umida e pulsante per i precedenti assalti. Si chinò, la sua lingua calda e umida che mi accarezzava il clitoride, poi le grandi labbra, poi si immerse nella mia carne bagnata. Gemetti, un suono gutturale che mi sorprese. Le sue labbra si aprirono, la sua lingua si fece strada, leccando via gli umori, il sapore salato e ferroso dello sperma che si mescolava al mio. "Ah... sì..." ansimai, le mie dita che si aggrappavano ai suoi capelli. Mentre si muoveva, la sua posizione metteva in evidenza il suo buco, un'apertura scura e invitante. Marco, che era rimasto in piedi, lo notò. Un ghigno malizioso gli si dipinse sul volto. Senza dire una parola, si avvicinò ad Alfonso, il suo membro turgido e pulsante che spuntava dai pantaloni abbassati. "Ehi, Alfonso," disse Marco, la sua voce bassa, quasi un sibilo. "Non vorrai mica lasciare che il tuo culo si senta escluso, vero?" Alfonso si irrigidì, il suo corpo che tremava leggermente. Cercò di girarsi, ma Marco era già dietro di lui, la sua mano che gli afferrava i fianchi, spingendolo più in avanti. "No... Marco..." la voce di Alfonso era soffocata, un misto di protesta e rassegnazione. Marco non gli diede il tempo di reagire. Con un'unica, decisa spinta, il suo cazzo si infilò nel buco di Alfonso. "Ah!" Alfonso urlò, la sua testa che si scagliò all'indietro, i suoi occhi che si spalancarono in un misto di dolore e sorpresa. Ma Marco non si fermò. Più lo sfondava, più Alfonso gemeva, e più Marco lo spingeva forte. E mentre Marco lo penetrava con forza, Alfonso continuava a leccarmi, la sua lingua che si muoveva freneticamente, quasi per sfogare la sua frustrazione, la sua umiliazione, il suo piacere. I suoi gemiti, ora, erano un misto di dolore e godimento, un suono che mi eccitava in un modo perverso. "Sì... così... succhia... succhia forte..." sussurrai, le mie mani che gli afferravo i capelli, tirandoli leggermente. Il suo corpo era teso, i muscoli contratti. Marco lo colpiva con spinte profonde, il suo culo che si muoveva a ogni affondo. Sentii il suono umido e schioccante delle loro carni che si scontravano. L'odore di sperma, sudore e eccitazione riempiva l'aria. "Ah... ah... Marco..." Alfonso gemeva, la sua voce che si trasformava in un lamento. Il suo corpo si scosse, un brivido lo percorse. Contemporaneamente, Marco si irrigidì dietro di lui, un urlo gutturale gli sfuggì dalla gola. Vennero insieme, un'esplosione di piacere che li lasciò tremanti. Marco si ritirò, il suo cazzo gocciolante che gli schizzò sulla schiena. Poi, con un gesto inaspettato, girò Alfonso verso di me, mostrandomi lo sperma che gli usciva dal buco, un rivolo bianco e denso che si mescolava al suo sangue. Alfonso era lì, in ginocchio, il suo viso rosso e sudato, i suoi occhi ancora pieni di un misto di dolore e piacere. Il suo sguardo incontrò il mio, e in quel momento, capii. Da quel giorno, cominciammo a frequentarci. Non era un amore convenzionale, era qualcosa di più oscuro, più intenso. Era un legame fatto di segreti, di perversioni, di un piacere che trovavamo nel superare i limiti. Ci scopavamo ovunque, in ogni momento, in ogni posizione. La mia pussy era la sua casa, il suo cazzo il mio giocattolo. Le sue dita forti che mi accarezzavano il clitoride, la sua lingua che mi esplorava, mi facevano gemere di puro piacere. "Sei mia, Lucia," mi sussurrava, la sua voce roca, mentre mi penetrava con forza. "Solo mia." Ma c'era un aspetto del nostro rapporto che mi intrigava e mi eccitava particolarmente. Ogni tanto, mi chiedeva di cornificarlo, di andare con altri ragazzi, e poi di raccontargli ogni singolo dettaglio. Voleva sapere tutto, ogni tocco, ogni bacio, ogni penetrazione. "Dimmi, Lucia," mi sussurrava all'orecchio, mentre i miei fianchi si muovevano contro i suoi, "come si è sentito? Era più grande del mio? Ti ha fatto venire?" E io gli raccontavo, con un lusso di dettagli che lo facevano impazzire. Vederlo eccitarsi con i miei racconti, con la mia infedeltà, era un'ulteriore fonte di piacere per me. A volte, veniva anche a guardare, nascosto nell'ombra, i suoi occhi scuri che mi seguivano, il suo respiro che si faceva affannoso. Il mio quindicesimo compleanno si avvicinava, e con esso, un'idea che mi ronzava in testa da settimane. Volevo qualcosa di speciale, qualcosa che segnasse il nostro legame, la nostra perversione. "Alfonso," gli dissi una sera, mentre giacevamo nudi sul mio letto, i nostri corpi ancora tremanti per l'orgasmo appena raggiunto. "Per il mio compleanno, voglio un regalo." Mi guardò, i suoi occhi scuri che brillavano nella penombra. "Qualsiasi cosa tu voglia, Lucia." "Voglio essere inculata. Ma non da sola." Le mie dita si mossero sul suo petto, scendendo verso il suo ventre, poi più in basso. "Voglio essere inculata assieme a te." Un sorriso lento e sensuale gli si disegnò sulle labbra. "Interessante." Trovammo due amici disposti a farlo con noi, due ragazzi che erano stati con noi in altre occasioni, che conoscevano i nostri giochi. Ci incontrammo in un appartamento vuoto, l'aria pesante di aspettativa. "Allora, Lucia," disse uno dei ragazzi, Marco, lo stesso Marco della prima volta, la sua voce che tradiva un'eccitazione contenuta. "Qual è il piano?" "Io e Alfonso," dissi, il mio cuore che batteva un ritmo frenetico, "a pecora. Uno davanti all'altra." I ragazzi si guardarono, un lampo di comprensione nei loro occhi. Ci mettemmo a pecora, io davanti ad Alfonso, i nostri culi esposti, invitanti. Sentii il respiro di Alfonso sulla mia schiena, il suo corpo che tremava leggermente contro il mio. I due ragazzi si avvicinarono, i loro membri turgidi e pulsanti. "Pronta, Lucia?" la voce di Marco era un sussurro. "Sempre," risposi, la mia voce un po' tremante. Sentii la punta del suo cazzo che mi sfiorava l'ano, poi una spinta decisa. "Ah!" Un dolore acuto mi attraversò, un dolore che si mescolava a un piacere perverso. Contemporaneamente, sentii il gemito soffocato di Alfonso dietro di me, il suo corpo che si contraeva. "Respira, Lucia," la voce di Alfonso era roca, "respira." Il suo cazzo si fece strada, lentamente, dolorosamente, ma poi il dolore si trasformò in una sensazione di pienezza, di distensione. Marco mi penetrava con forza, le sue spinte profonde e ritmiche. Dietro di noi, sentii i gemiti di Alfonso, i suoni umidi e schioccanti delle loro carni che si scontravano. "Fa male..." sussurrai, le mie dita che si stringevano sul materasso. Alfonso si mosse, la sua testa che si chinò sulla mia spalla. Le sue labbra calde si posarono sulle mie, un bacio intenso, profondo, che mi fece dimenticare il dolore, o almeno lo rese sopportabile. La sua lingua si intrecciò con la mia, un ballo sensuale, mentre i nostri culi venivano sfondati. "Ti amo, Lucia," mi sussurrò tra un bacio e l'altro, il suo fiato caldo sul mio viso. "Anch'io, Alfonso," risposi, il mio cuore che batteva all'impazzata. I nostri corpi si muovevano all'unisono, un'unica massa di carne e desiderio. I gemiti, i sospiri, i suoni umidi, riempivano l'aria. Era un'esperienza intensa, dolorosa e incredibilmente eccitante. Era il nostro modo di amarci, il nostro modo di essere. E in quel momento, tra il dolore e il piacere, tra la vergogna e l'estasi, sapevo di aver trovato il mio posto, il mio Alfonso, la mia perversione. E non avrei mai voluto che finisse.

«Bellissimo, molto eccitante!»