MARCO E LA SUA PADRONA
Il clic della serratura risuonò nel silenzio dell'appartamento, un suono familiare che ogni sera, ormai, mi stringeva lo stomaco. La luce fioca del corridoio abbracciava le mie spalle curve, la borsa del lavoro penzolava pesante dalla mano. Non era il peso delle carte o del computer a fiaccarmi, ma quello invisibile, la cappa di anticipazione e paura che ogni sera mi avvolgeva. Avevo varcato la soglia di casa, ma era come entrare in un altro mondo, un regno dove le regole erano le sue, e il mio corpo, il mio volere, non contavano nulla. Mi mossi lentamente, quasi strisciando, verso il soggiorno. Il profumo di incenso, dolce e opprimente, aleggiava nell'aria, mescolandosi a una nota più acuta, metallica, che mi faceva gelare il sangue nelle vene. Sapevo cosa significava. Non era un giorno come gli altri. Non era una sera di semplice attesa e sottomissione. Questa sera c'era qualcosa di diverso, di più affilato, nell'aria. La sua voce mi trafisse alle spalle. "Marco, sei arrivato. Sei in ritardo di tre minuti." Non mi voltai subito. Sentii il respiro bloccarsi in gola. "Mi dispiace, Diana. Il traffico..." "Non m'interessa il traffico," la sua voce era un filo di seta intriso di veleno, "M'interessa la tua obbedienza." Rimasi immobile, le dita che stringevano il bordo della borsa. Ogni nervo teso, ogni muscolo contratto. Poi, come ogni sera, cominciai il rituale. La giacca scivolò dalle spalle, la camicia sbottonata cadde a terra. I pantaloni seguirono, poi i boxer. Rimasi nudo, esposto, vulnerabile. Il freddo dell'aria condizionata mi pungeva la pelle, ma era un freddo che partiva da dentro. "Il collare, Marco." La sua voce non ammetteva replica. Il collare di cuoio, nero, spesso, con borchie d'acciaio, era appeso al solito gancio accanto alla porta della camera da letto. Lo presi, le dita che tremavano leggermente mentre lo allacciavo attorno al mio collo. La fibbia scattò con un suono definitivo. Il peso del metallo contro la mia gola era un monitor costante della mia posizione. Non ero più un uomo. Ero suo. "Bene. Ora vieni in camera. Ho una sorpresa per te." Il tono era dolce, troppo dolce. Un brivido mi percorse la spina dorsale. La "sorpresa"di Diana era sempre un precipizio, una discesa in un abisso sempre più profonda di umiliazione. Non osai chiedere. Non osai esitare. Le sue parole erano legge. Mi mossi verso la camera da letto, i passi incerti sul pavimento lucido. La porta era socchiusa, una fessura di luce arancione filtrava dall'interno. Il cuore mi batteva all'impazzata, un tamburo impazzito nel petto. Spinsi la porta, e la scena che mi si parò davanti mi fece vacillare. Diana era sdraiata sul letto, nuda, le gambe divaricate, la schiena inarcata in un arco lussurioso. E su di lei, a cavalcioni, il suo corpo che si muoveva in un ritmo incessante... c'era Mario. Il mio migliore amico. Il suo cazzo, grande e scuro, pulsava dentro di lei, scomparendo e riapparendo con ogni spinta. I suoi fianchi battevano contro i suoi, un suono umido, carnale, riempiva la stanza. Mario. Il mio amico. I miei occhi si spalancarono, il respiro mi si bloccò in gola. Non era possibile. Il mio migliore amico. Il mio mondo si capovolse. Mario mi guardò, il suo viso arrossato dallo sforzo, un ghigno che si disegnava sulle labbra. Non c'era vergogna nei suoi occhi, solo una soddisfazione brutale. Continuò a pompare, il suo sguardo fisso su di me, quasi a sfidarmi. Diana ansimava, le mani affondate nei capelli di Mario. Le sue unghie laccate di rosso graffiavano la sua nuca. I suoi occhi si posarono su di me, un bagliore di trionfo e crudeltà. "Oh, Marco. Sei arrivato al momento giusto," la sua voce era un sussurro roca, spezzata dal piacere. "Guarda cosa ti sei perso." Mario gemette, un suono profondo, gutturale. Le sue spinte si fecero più veloci, più violente. Il letto scricchiolava sotto il peso dei loro corpi intrecciati. La carne contro carne, il suono bagnato e schioccante, le loro risate basse che si mescolavano ai gemiti. Mi sentii come se qualcuno mi avesse svuotato l'aria dai polmoni. Mario. "Non mi hai mai detto," disse Diana, la voce ora più ferma, ma ancora carica di eccitazione, "che il tuo amico aveva un cazzo così grosso e duro. Hai tenuto un segreto, Marco. E i segreti, si sa, vanno puniti." I suoi occhi mi inchiodarono. Il suo sguardo era un misto di desiderio e disprezzo. Mario si piegò su di lei, i suoi muscoli tesi, la sua schiena lucida di sudore. I suoi fianchi si muovevano con una forza primordiale. Diana strinse le gambe attorno a lui, le dita dei piedi contratte. "Vieni più vicino, Marco. Voglio che tu veda bene." Feci un passo avanti, poi un altro, come un burattino mosso da fili invisibili. Ogni passo era una pugnalata. Il mio migliore amico. Mario gemette forte, un grido soffocato, e poi si irrigidì. Il suo corpo tremava, i muscoli si contraevano. Sentii il suono umido e scivoloso del suo sperma che schizzava dentro di lei. Diana gemette ancora, un lungo, profondo sospiro di piacere, e poi si rilassò sotto di lui, i suoi occhi ancora fissi su di me, un ghigno soddisfatto sulle labbra. Mario si tirò fuori lentamente, il suo cazzo grondante e lucido. Una goccia di sperma scivolò dalla punta, luccicando nel chiarore della lampada. "Adesso, Marco," Diana si sollevò sui gomiti, il suo sguardo freddo come il ghiaccio. "Puliscilo." La mia mente urlava. Pulire il cazzo del mio migliore amico, appena uscito da mia moglie? La nausea mi attaccava lo stomaco. «Muoviti, cornuto», la sua voce era un sibilo tagliente. "Non farmi aspettare." Mi inginocchiai davanti a Mario, il suo cazzo ancora eretto, gocciolante. Il suo odore, un misto di sperma e del profumo di Diana, mi riempiva le narici. Guardai Mario, i suoi occhi che brillavano di un piacere perverso. Non c'era più l'amico in quello sguardo, solo il conquistatore. Aprii la bocca, la lingua pesante e insensibile. Avvicinai le labbra alla punta del suo membro, la carne calda e tesa. Sentii il sapore salato e amaro del suo sperma sulla lingua, mescolato a quello dolce e ferroso del suo prepuzio. La mia gola si chiuse, ma non potevo fermarmi. Leccai, succhiai, pulii ogni goccia. Sentii la sua punta dura premere contro il palato, poi la base del suo cazzo contro la mia lingua. Il mio corpo tremava, ma non di freddo. "Bene," la voce di Diana era un ruggito soddisfatto. "Ora la mia fica." Mi alzai, il sapore di Mario ancora in bocca. Mi avvicinai a Diana, le sue gambe ancora divaricate. La sua fica era un disastro. Labbra gonfie, rosse, ancora pulsanti, ricoperte di sperma che le colava lungo le cosce, mescolandosi ai suoi succhi. Il suo odore era intenso, un misto di sesso selvaggio e lussuria. "Leccala," ordinò. "Lecca via ogni goccia. Voglio che tu beva tutto il suo sperma." Mi inginocchiai di nuovo, il mio viso affondò tra le sue gambe. La sua fica mi accolse, calda, umida, viscida. Il sapore del suo sperma era ovunque, un gusto amaro e metallico che mi riempiva la bocca. La leccai, prima con timidezza, poi con una frenesia indotta dalla paura. La sua clitoride era gonfia, dura, pulsante. La succhiai, la mordicchiai delicatamente. Il suo sperma mi colava in gola, caldo e denso. Sentii il suo corpo scuotersi, le sue mani mi afferrarono i capelli, spingendomi più a fondo. "Sì, Marco," ansimò."Bevi tutto. Bevi lo sperma del tuo amico." E bevvi. Bevvi il suo sperma, il suo desiderio, la sua umiliazione. Ogni leccata era una pugnalata al mio orgoglio, ma non potevo fermarmi. Dovevo obbedire. Quando ebbe finito di bere, Diana si alzò dal letto. "Ora, Mario," disse, la voce fredda come il ghiaccio, "inculalo." Mario si alzò, il suo cazzo di nuovo duro, pulsante, pronto per un altro round. Mi afferrò la nuca, spingendomi a quattro zampe. Sentii le sue mani forti aprirmi le native, la sua erezione che mi sfiorava l'ano. Una fitta di terrore mi attraversò. "No," sussurrai, ma la mia voce era solo un flebile lamento. "Sì," disse Diana. "Sì, Marco. Questo è per avermi nascosto il cazzo del tuo amico." Mario Spinse, una pressione forte e dolorosa. Sentii la sua punta che si faceva strada, un dolore acuto che mi fece urlare. Il mio corpo si contrasse, ma lui continuò a spingere, lentamente, inesorabilmente. Le sue dita mi trattenevano ferme, impedendomi di fuggire. "Ah, Marco," ansimò Mario, la sua voce roca, "sei così stretto." Ogni spinta era un'agonia. Il dolore era lancinante, ma non potevo oppormi. Diana mi guardava, un sorriso crudele sulle labbra. Mario mi inculava, e con una mano mi segava venni e sborrai per terra, il suo cazzo che mi lacerava dentro. Le lacrime mi rigavano il viso, ma lei non provava alcuna pietà. Quando ebbe finito, Mario si tirò fuori, il suo cazzo sporco di merda e sperma. Mi sentii svuotato, sporco, rotto. "Adesso, Marco," disse Diana, alzando un frustino di cuoio. "In piedi." Mi alzai a fatica, il culo che pulsava di dolore. I tacchi a spillo di Diana risuonarono sul pavimento mentre mi girava intorno. Uno schiocco secco, e il frustino mi sferzò la schiena. La pelle si aprì, un bruciore acuto si diffuse. Un altro schiocco, un altro. E un altro. Il dolore mi annebbiava la vista, ma non osavo fare un suono. «Questo è per la tua disobbedienza», disse, un colpo secco. "Questo è per la tua debolezza," un altro. "Questo è per la tua codardia," e un altro ancora. Poi, si fermò. Mi afferrò i capelli, tirandomi la testa all'indietro. "Ora pulisci il cazzo di Mario. È sporco, Marco. E lecca per terra dove hai sporcato. E tu sei il mio schiavo pulitore." Mi inginocchiai di nuovo, il corpo che tremava. Il cazzo di Mario era ancora sporco, ora con tracce di merda. Leccai, succhiai, pulii ogni traccia. Il sapore era nauseabondo, ma non potevo fermarmi. Quando ebbi finito, Diana mi spinse a terra pulisci tutto lecca per bene. "Rimani lì, cornuto. Ho bisogno di pisciare." Sentii il calore della sua urina che mi inondava la schiena, il viso, il petto. Il suo odore acre mi riempiva le narici. Rimasi immobile, la testa premuta contro il pavimento, mentre lei si svuotava su di me. Il giorno dopo fu peggio. Diana aveva invitato altri due amici, Luca e Paolo. Erano seduti sul divano, le loro risate risuonavano nella stanza. Io ero in ginocchio, il collare stretto, le mani legate dietro la schiena. "Marco," la voce di Diana era un ringhio felino. "Guarda." Era sul letto, nuda, le gambe aperte. Luca e Paolo erano su di lei, i loro cazzi che le penetravano la fica. Due cazzi, contemporaneamente. Luca entrava da dietro, Paolo da davanti. La sua fica era un buco nero, che inghiottiva entrambi. Gemeva, urlava, si dimenava sotto di loro, i suoi occhi che brillavano di un desiderio insaziabile. "Guarda bene, Marco," mi ordinò. "Guarda come mi scopano. Guarda come mi riempiono." Luca Gemette, un suono profondo e gutturale, e si svuotò dentro di lei. Poi Paolo, con un urlo di piacere, si riversò anch'egli. La sua fica era un lago di sperma, che traboccava e le colava lungo le cosce. Diana si alzò, il suo corpo lucido di sudore e sperma. Si avvicinò a me, il suo sguardo crudele. "Ora, Marco. Bevi." Si sedette sulla mia faccia, la sua fica grondante di sperma che mi premeva contro le labbra. Il suo odore era forte, intenso, un misto di sesso, sudore e sperma. Non potevo respirare. Le sue labbra vulvari mi premevano contro il naso, il clitoride pulsante contro la mia fronte. "Apri la bocca, cornuto." Obbedii. La sua fica si aprì sopra la mia bocca, e lo sperma caldo e denso cominciò a colare. Bevvi, ogni goccia, il sapore salato e amaro che mi riempiva la gola. Il mio stomaco si contorceva, ma non potevo vomitare. Le sue mani mi tengono ferma la testa, impedendomi di muovermi. "Bevi tutto, Marco," ansimò. "Bevi il cazzo dei miei amanti." E bevvi. Bevvi il loro sperma, la sua lussuria, la mia umiliazione. Ogni goccia era un promemoria della mia condizione, della sua totale padronanza su di me. Poi, si alzò. "Ora, Marco. È il tuo turno." Mi legarono a una croce di legno, le mie braccia aperte, il mio corpo esposto. Diana prese una candela, il suo fuoco che brillava nel buio. La cera calda mi colò sulla pelle, un bruciore acuto che mi fece urlare. Poi un'altra. E un'altra. Il dolore era insopportabile, ma non potevo scappare. "Questo è per la tua debolezza," disse, mentre la cera mi bruciava la pelle. "Questo è per la tua nullità." Il suo sorriso era diabolico, i suoi occhi brillavano di un piacere perverso. Luca e Paolo mi guardavano, i loro volti privati di espressione. Non c'era scampo. Non c'era via d'uscita. Quando la cera ebbe finito di colare, Diana prese un coltello. La lama brillava nel buio. Sentii un brivido di terrore. "No," sussurrai. "Sì, Marco," disse. "Sì." La lama mi sfiorò il petto, poi si abbassò, tagliandomi la pelle. Il sangue sgorgò, caldo e denso. Il dolore era lancinante, ma non potevo fare un suono. Non potevo. Era la sua vittoria. La sua totale, assoluta vittoria. E io ero solo un corpo, un oggetto nelle sue mani, un giocattolo da usare e gettare via. Il mio spirito era rotto, il mio corpo un guscio vuoto. Ero suo. Completamente suo. E in quel momento, in quell'abisso di dolore e umiliazione, capii che non c'era più nulla di me da salvare. Ero solo il suo schiavo. La sua cagna. E così sarebbe stato per sempre.
MANDREKINO
