Ora casa mia mi sembra così lontana. Ogni metro percorso mi allontana da ciò che conosco, da ciò che è sicuro. Un nodo, denso e pesante, mi stringe la gola, rendendo ogni respiro un po’ più difficile. È un misto di disagio e un’inquietudine crescente, una sensazione che sale dallo stomaco e si ferma proprio lì, a bloccare qualsiasi parola potrei voler pronunciare. La sua mano. Così ferma, così prossima sulla mia gamba. È solo un tocco leggero, quasi distratto, eppure per me è immenso, pesante, carico di un significato che mi sforzo di non voler cogliere. Forse è solo una piccola confidenza, mi dico, un gesto involontario, la normalità di un viaggio condiviso. Cerco di razionalizzare, di minimizzare. Ma la tensione resta, sottile ma insistente.
Lui mi chiede se la strada è giusta, quasi come se volesse una conferma, un segno che sono lì con lui, ancorata al presente. Mi chiede di indicargli eventuali deviazioni per tempo, quasi a suggerire una complicità che non sento. Eppure, nonostante la sua domanda, rimane indifferente, come se quel contatto, la sua mano sul mio ginocchio, fosse la cosa più normale del mondo. Ed è proprio questa apparente normalità che, paradossalmente, mi tranquillizza un po’. Se per lui è normale, forse lo è anche per me, forse sto esagerando. Ma la verità è che non lo è. Non è normale, e io resto un po’ tesa, ogni muscolo contratto in una difesa silenziosa.
Ora guardo la strada. I dettagli del paesaggio passano fuori dal finestrino, sfocati, indifferenti alla mia tempesta interiore. Non riesco più a guardarlo. Fissare la strada è diventato il mio scudo, il mio riparo. Mi imbarazza, sì, mi imbarazza molto. Ogni volta che il mio sguardo sfiora il suo, sento un'ondata di calore salirmi al volto, e non è un calore piacevole. Balbetto che ormai non manca molto, una frase per riempire il silenzio, per affrettare la fine di questo viaggio. E la sua reazione è quella di andare ancora più piano. Il rumore del motore sembra attenuarsi, quasi la macchina stesse rallentando fino a fermarsi. A volte sembra quasi che si fermi del tutto. È un rallentamento intenzionale, una tortura sottile che prolunga l'agonia, rendendo ogni metro un'eternità.
La sua mano. Non è più ferma sul ginocchio. Un movimento lento, quasi impercettibile, ma che sento con intensità bruciante. Si muove dal ginocchio in su, con gesti sempre più lunghi, sempre più insistenti. Ogni millimetro in più è una violazione del mio spazio, un'invasione che mi fa irrigidire, rendendo il mio corpo una statua di tensione. Sento il cuore battere forte, un tamburo impazzito che rimbomba nelle mie orecchie. Respiro a malapena, ogni inspirazione bloccata dal terrore crescente. E poi, la mano si infila tra le mie gambe che tengo strette, strette una all'altra, in una disperata, inutile difesa. Cerca spazio, un varco. E con un po' di forza, una spinta determinata, riesce a spingerla in su.
Ciò mi fa reagire. È un istinto primordiale, la necessità di difendermi da questa intrusione. In un lampo, la mia mano afferra la sua, stringendola forte, cercando di fermare il suo movimento arrogante. La mia voce, un sussurro a malapena udibile, quasi strozzato dalla gola secca, chiede: “Mi scusi, cosa fa?”. È una domanda inutile, retorica, perché so benissimo cosa sta facendo. Ma è l’unica cosa che riesco a formulare, un patetico tentativo di riaffermare il mio controllo, la mia dignità.
Lui non si scompone. Zero reazione, zero pentimento. La sua calma è agghiacciante. “Sei così bella,” dice, la sua voce bassa, quasi seducente, un contrasto stridente con la brutalità dei suoi gesti. “Voglio che ci divertiamo un po’.” Divertirci? Il sangue mi si gela nelle vene. Non c’è divertimento in questo, solo paura e repulsione. E poi mi chiede, con tranquillità disarmante, se non conosco un posto dove fermarci con la macchina. Il mio cervello è in tilt, le parole si bloccano. Dico di no, la negazione si alza come un muro. “Voglio scendere,” aggiungo, la voce forse un po' più ferma, carica di urgenza. Guardo fuori dal finestrino, cerco disperatamente di capire dove siamo, un punto di riferimento, una via di fuga. Ma questo movimento, questa leggera torsione del busto, è un tragico errore. Gli permette di raggiungere il suo scopo. La sua mano riesce ad arrivare dove voleva, proprio a contatto con la mia intimità.
Ora il mio atto di stringere le gambe, di difendermi, è quasi un vantaggio per lui. Sente la mano bloccata lì, e l’impossibilità di sfilarla è come una stretta che paradossalmente gli offre più presa. Non riesco a sfilarla. Stringo, mi sforzo, ma la sua presa è ferma, e la mia forza sembra essersi prosciugata. E sento le dita muoversi, una carezza viscida che mi provoca nausea. Spingono i leggings un po’ dentro la fessura, un’invasione fisica che è anche un’aggressione alla mia dignità. Non so che fare. Sono paralizzata dalla paura, dalla vergogna. Il mio corpo risponde senza che io lo voglia, un tremore incontrollabile che mi scuote dall'interno. Lui continua a parlare, la sua voce calma, insistente, mentre le sue dita continuano a muoversi, a violarmi. Mi chiede un posto tranquillo dove fermarsi.
Il mio pensiero invece è solo uno: come uscire da questa situazione. Tutto il resto svanisce. Penso a convincerlo di farmi scendere. Di chieder-gli di fermarsi immediatamente. Penso persino, visto la lentezza con cui guidava, di scendere mentre era ancora in movimento, un pensiero folle, dettato dalla disperazione. Ma ogni mio movimento, ogni mio tentativo di liberarmi, gli permette solo di toccarmi tra le gambe con più insistenza, con più audacia. I minuti passano, interminabili, pesanti come macigni. Le sue richieste sono sempre insistenti, una cantilena che mi entra nelle orecchie e mi ossessiona. Ogni mia parola, ogni tentativo di protesta, non viene neanche presa in considerazione, come se io non parlassi, come se la mia voce non esistesse.
La sua voce però è calma, terribilmente calma. Cerca sempre di tranquillizzarmi, di rassicurarmi. Mi dice che vuole solo che ci divertiamo un po', che sono solo carezze, nulla di eccessivo, che non mi farà nessun male, che vuole solo toccarmi un po'. Le sue parole si insinuano, subdole, cercando di insinuare un barlume di speranza in una situazione che sa di disperazione. Cercano di convincermi che forse quella è l'unica soluzione, l'unico modo per farla finita. Ed è lì che, in un ultimo disperato tentativo, prendo un po' di coraggio. Non è vero coraggio, è rassegnazione mascherata. Pronuncio le parole, quasi estranee alla mia bocca: “Se va bene, ci fermiamo dieci minuti, poi mi porti a casa.” Mi aggrappo a queste dieci minuti come a una ancora di salvezza, l'unica via d'uscita che riesco a immaginare in quel momento.
Lui risponde un semplice “sì”. E allora gli dico che poco avanti c'è una stradina di campagna, un posto appartato, isolato, dove fermarsi. La mia voce è un filo, ma le parole escono. Lui, tranquillamente, mi dice di indicargliela appena la vedo. La sua calma è la cosa più terrificante di tutte. E aggiunge, con la stessa indifferenza disarmante: “Tranquilla, ci rilassiamo solo un po’”. Ma nel suo “tranquilla” non c'è nulla di tranquillizzante. C'è solo l'eco di una promessa implicita e la consapevolezza che questi dieci minuti saranno un inferno, un conto alla rovescia verso un ulteriore, inevitabile abuso. Vi lascio in sospeso per la terza parte, sapendo solo che il senso di vulnerabilità è ora al suo culmine.

«Bellissimo...Alessandra i tuoi racconti sono sempre carichi di dettagli bravissima tesoro»