«Lasciami andare! Aiuto! Mi fai male!», gridavo nel sottopassaggio della stazione contro l'omone nero che mi aveva afferrata per un polso. 


«Mollami!», strillavo, ma la sua presa si faceva più forte e, con vigore, mi tirava e strattonava verso il bagno pubblico da cui era improvvisamente sbucato. 


Era un gigante africano, probabilmente un barbone, odorava di sudore e indossava dei pantaloni troppo larghi e una maglietta sgualcita. Mentre mi tirava mi urlava alcune parole in francese, riuscì solo a sentire «salope blanche», ossia «puttana bianca», e «pute». 


A ripensarci, dato che tornavo da un locale notturno, ero conciata davvero come una puttana, indossavo infatti un cortissimo vestito rosa, dei tacchi con plateau del medesimo colore, delle autoreggenti nere e una giacca in pelliccia. 


Ebbi un moto di terrore quando, stufatosi di tirarmi per il braccio, mi afferrò prepotentemente per il collo. La sensazione delle sue potenti dita che si stringevano intorno alla mia gola mi fece, inaspettatamente, gocciolare il cazzetto nelle mutandine, mentre i miei capezzoli si fecero duri e doloranti. Un pensiero folle lampeggiò nella mia mente: «rendimi la tua cagna, bastardo». Avevo smesso di urlare e, istintivamente, appoggiai la mia mano dalle dita smaltate sulla patta dei suoi pantaloni logori. 


La comparsa di alcune persone nel sottopassaggio indussero il negro a mollare la presa, ne approfittai per correre via. Lo sentii urlare alle mie spalle parole incomprensibili. Complice il vestito troppo stretto, inciampai e ruzzolai a terra. Un'autoreggente si lacerò all'altezza del ginocchio. Mi rialzai, recuperai la scarpa che, a causa della caduta, era balzata in terra, e mi fiondai nell'auto che avevo parcheggiato nel piazzale della stazione. 


Afferrai il volante con forza, singhiozzando come una ragazzina e respirando affannosamente, tremante di paura ed eccitazione. A spaventarmi, però, non era stato tanto il comportamento dell'africano, ma la mia irresponsabile reazione a esso. Avevo le mutandine fradice ed ero disorientata da fantasie indecenti. Come avevo potuto pensare di lasciarmi usare da lui in quel bagno? Provavo una gran vergogna. 


A differenza di molte sissy e femminucce varie, non avevo mai provato attrazione per i negri, ma da quella notte iniziarono a esercitare una magica forza su di me. Nei giorni successivi, il segno rosso che il senzatetto mi aveva lasciato sul polso, mi apparve come un marchio di sudditanza, come la gabbietta per il cazzetto che alcuni uomini mi facevano indossare. 


Nel tempo libero presi a bighellonare, in abiti maschili, nei pressi della stazione ferroviaria, alla ricerca dell'uomo di quella notte. Osservavo i gruppi di negri nel piazzale davanti alla stazione, li guardavo oziare sulle panchine e spacciare dell'erba scadente, e sognavo di farmi scopare da tutti loro, diventare il loro giocattolo sessuale, la spompinatrice ufficiale della gang. Mi vergognavo di avere fantasie così audaci e violente, ma non riuscivo a pensare ad altro. 


Poi, un giorno, finalmente, vidi passare il mio "molestatore". Era molto più alto e muscoloso di quanto ricordassi, con una faccia squadrata e minacciosa. Avanzava svogliatamente con un borsone sulle spalle, mi passò davanti senza nemmeno vedermi, lasciando una scia di odore grassoso e pungente. Il cazzetto mi venne immediatamente duro e il culo iniziò a pulsarmi.  


Decisi di seguirlo per un tratto, fino a quando non lo vidi entrare nel bagno pubblico da cui era uscito quella fatidica sera. Aspettai qualche secondo, poi buttai un occhio all'interno: stava pisciando in un gabinetto a muro, i pantaloni larghi erano calati quasi fino alle ginocchia, permettendomi di vedere il suo culo nero, muscoloso, sodissimo e tutto da leccare. Mi allontani con un cerchio alla testa e la mutandine, di nuovo, bagnate. 


Una sera, stanca di lunghissime sessioni masturbatorie, presi la mia decisione. Una notte, mi vestii da baldracca, proprio come quella sera, e decisi di tornare nel sottopassaggio della stazione. 


Il bagno era abbastanza maleodorante, le pareti ricoperte di scritte e disegni osceni, la luce piuttosto debole. Vidi il negro sdraiato su delle coperte, dormiva accanto a della lattine di coca-cola e di birra, mi avvicinai cercando di non fare troppo rumore coi tacchi. Mi inginocchiai tra le sue gambe, armeggiai delicatamente coi pantaloni larghi e sudici, e ne estrassi il cazzo. Sebbene molle era lunghissimo e spesso, circonciso, penzolava da un pube ricoperto di peli ricci e crespi. Aveva un odore fortissimo. Afferrai quel bastone e iniziai a fargli una sega. 


Dopo qualche minuto, il negro si destò, si alzò in piedi di scatto, cerco di tirarsi su i pantaloni che, però, continuavano a cascargli, tentai di mettermi in piedi anche io ma lui mi afferrò per il collo e mi sbatte contro il muro urlando:  «Que voulez-vous?». 


Provai a calmarlo: «calme-toi, tu m'as déjà vu».
Lo vidi placarsi, sorridere sconciamente, ma continuare a stringermi il collo. Con una mano mi tastò tra le gambe e la sua risata si fece più rumorosa, spalancò la bocca mostrandomi due file di denti bianchi. Dovevo apparirgli ridicolo, d'altronde ai suoi occhi ero un maschio fallito, una femminuccia coi capelli rosa, vestito come una Barbie-puttana. 


Allungai avidamente le mani verso il suo cazzone. Lui mollò la presa e io m'inginocchiai tra le sue gambe muscolose. L'odore era forte, il gusto salatissimo, ma glielo lavorai con la lingua di gusto. Con una mano mi tenevo appoggiata ai suoi pantaloni, con l'altra gli massaggiavo le palle dure e pelose. Mi teneva le mani premute sulla testa, spingendomi nella gola il suo cazzone sudato. L'odore, invece di disgustarmi, mi spinse a pomparlo ancora più intensamente, al limite delle mie energie, fino a quando non mi spruzzò, quasi direttamente in gola, dello sperma vischioso e amarissimo. 


Me lo tolse dalle labbra e tentati di rimettermi in piedi, nel tentativo di allontanarmi, mi vergognavo un po' di averlo succhiato a un barbone, ma lui mi afferrò forte un braccio e disse: «où vas-tu, salope?», ovvero «dove vai, troia?». 


Mi spinse sulle sue coperte. Mi misi a quattro zampe e il barbone si trovò il mio culo completamente esposto alle sue voglie. Mi strappò via le mutandine di pizzo con uno strattone violento e poi cominciò a sfregare il cappellone umido sul mio candido buchetto rosa. 


Con un deciso colpo di reni me lo spinse dentro. Affondai le mie unghiette nelle coperte. Il mio povero culetto, poco lubrificato, a causa dello sfregamento iniziò a bruciare. Non riuscivo a stare ferma sotto a quei colpi, agitavo le mie gambe e mi abbandonavo a vergognosi "ooooohh". Una copiosa sborrata mi riempì lo stomaco. Il mio cazzetto, duro ed eccitato, sgocciolava sul coperte puzzolenti. 


Quando riaprii gli occhi, che avevo chiuso per l'estasi, vidi attorno a me una selva di scarpe, ciabatte e piedi nudi. Si era formato un capannello di negri attorno a me, tutti col cazzo in mano, decisi a sfruttare l'opportunità di una bella bocca. Succhiai tutti quei cazzoni sporchi e caldi. Ognuno di loro mi sborrò in faccia o in gola, era uno sperma denso e giallastro, simile a burro. Qualcuno mi sputò in faccia, in pieno occhio, una saliva altrettanto densa, che mi staccò una ciglia finta che avevo tanto accuratamente indossato. 


Solo allora, quando si furono tutti svuotati, mi permisero di alzarmi e mi scortarono verso l'uscita. Ero scalza, mi avevano tolto le scarpe, i miei costosi tacchi rosa, e se li lanciavano come una palla. Una volta arrivati all'uscita mi spinsero via e mi buttarono addosso le scarpe, poi, uno di loro urlò nella mia direzione: «reviens bientôt!», «torna presto!». 


Mi guardai nello specchietto dell'auto. Il mio volto era un'amalgama di trucco e sperma negro. Provai un profondo imbarazzo, ma sapevo che non sarebbe stata l'ultima volta.