La tracolla si tese, la macchina fotografica penzolò sul suo petto, allungò le braccia e sfilò le mutande, scoprendo finalmente la ciolla.


Lo guardai e nascosi un pizzico di delusione per le dimensioni ridotte.


«Nun è poi accussì ranni, ma ti garantisco chi fa u so duviri» precisò, quasi offeso dal mio sguardo, come se mi avesse letto nella mente.


«Non ho detto niente» provai a scusarmi, «… e poi quella curva a destra mi piace! »


L’erezione aveva accresciuto un membro che, a riposo, sarebbe stato leggermente più corto delle dimensioni medie dei peni italiani; almeno, secondo i dati Istat di non so quale anno. Sorrisi mentalmente all’idea di conoscere le persone incaricate di girovagare per le piazze e investigare sulle dimensioni dei cazzi, poi cercai di ricompormi.


Il fotografo mi chiese se volessi continuare la sessione. Il mio rifiuto gli suggerì che le mie intenzioni erano altre. Poggiò la fotocamera – ormai inutile – in un posto sicuro, provò ad avvicinarsi ma lo bloccai.


«Piano!»


Mi sedetti sul divano di fronte a lui, schiena orgogliosamente dritta e petto all’infuori. Allontanai le cosce e misi la vulva ben in mostra. Alzai i talloni in un riflesso condizionato, le dita dei piedi il mio unico contatto con il pavimento, e mi leccai le dita della mano destra. Giacomo portò a sé lo sgabello e vi si assittò. Cunfunnutu e ipnotizzato dai miei movimenti, distanziò le gambe a sua volta e iniziò a toccarsi il pube peloso e i testicoli.


Feci scorrere l’indice, umido di saliva, dalla bocca al collo, dalle clavicole al seno. Schiusi le labbra e le umettai, stuzzicai i capezzoli e mi eccitai ancor di più quando il fotografo avvolse la mano intorno alla minchia e iniziò ritmicamente a minarisilla. Leccai la mancina e la spedii altrove. Allisciai l’inguine e circumnavigai la vulva, costringendo Giacomo ad aumentare il ritmo; infine, approdai sul clitoride. Tentai di essere sensuale, di solleticarlo delicatamente, ma quelle manovre non durarono a lungo. Abbandonai qualsiasi inibizione; aumentai la pressione e affrettai i movimenti.


Lessi un enorme desiderio negli occhi del fotografo e lo accontentai. Infilai il medio, producendo un piacevole sciacquettio, lo curvai, grattai e ansimai, con gli occhi socchiusi e il corpo tormentato dal piacere. Un dito arrascava, l’altro premeva poco più su. Giacomo si fermò e si limitò a guardarmi; il suo cazzo pulsava, schiavo dell’erezione.


«Ti vogghiu taliari.»


Lo accontentai e diedi spettacolo. Premetti sull’acceleratore, per quanto possibile, e domandai aiuto anche all’anulare. Le mie dita, caparbie e bramose di soddisfarmi, continuarono a esplorare e a ritrarsi, ad affondare, flettersi, cercare e svincolarsi. Uno spasmo mi costrinse ad attisare i jammi per qualche secondo, poi le ritrassi verso di me e appujai i talloni sul divano. Biascicai di esserci quasi. Strinsi gli occhi e spalancai la bocca, trattenni il fiato, racchiusi nel basso ventre tutta la pressione accumulata durante quella seduta fotografica e poi, finalmente, liberai la valvola di sfogo e venni copiosamente.


Per qualche secondo, mi abbandonai a quella piacevole sensazione di benessere e stanchezza, con i polmoni spossati dallo sforzo e la fronte madida di sudore; poi mi ricordai di non essere da sola in quella stanza.


«E tu?»


Giacomo non rispose, si limitò ad alzarsi, ràpì nu’ stipu lì accanto e ne estrasse un piccolo flaconcino. Afferrò un cuscino e lo gettò sul pavimento, si sdraiò supino e mi chiese di avvicinarmi.


«Vedo che sei attrezzato… ma cos’altro ci fai, di preciso, in questo studio?»


Non affrontò la mia domanda.


«Tocchimi cu ‘i peri, pi’ favuri!»


Mi porse il lubrificante; ne versai un po’ sull’asta. Spalancò le gambe per farmi posto, mi assittai e iniziai a massaggiargli la minchia con il piede destro, ammuttandogliela contro il ventre. Le dita, inumidite dal gel, lambirono la punta violacea e la superarono; permisero alla pianta del piede di accarezzargli la cappella, poi tornarono indietro e si allargarono attorno ad essa. Gli stuzzicai la base del glande; Giacomo tremò. Arrivai lentamente ai cugghiuni e all’interno coscia, premetti le dita gentilmente contro i testicoli e ricominciai da capo la mia scalata. Seguii questo canovaccio; dopo un po’ domandò pietà e ricorsi all’aiuto del piede sinistro. Gli abbracciai il membro con le dita, allargando le gambe e scoprendo la fica. Vide quel tesoro (non più) segreto e si leccò le labbra all’idea di manciarisilla. Premetti un piede contro il suo ventre per costringerlo a terra e, ritornata in posizione, mi affrettai a masturbarlo. Il cazzo, scivoloso per il troppo gel, continuava a sfuggire alla mia presa, decisi quindi di frizionarlo con le piante. Pochi secondi, qualche sfregamento deciso ed eiaculò. Il liquido, denso e del color dell’avorio, schizzò in alto e poi ricadde sul pube e sui miei piedi. L’orgasmo lo lasciò senza fiato, si sedette e mi ringraziò.


«Non te la cavi così!»


Avevo ancora voglia di godere ed era nuovamente il mio turno.


Mi assittai sul divano, impudente, chiedendogli se la desiderasse. Si mise addinucchiuni e gattonò docilmente verso di me. Mi schiuse le cosce, si complimentò per la vista e iniziò a leccarmi l’ombelico, dirigendosi dopo sul Monte.


«Quantu mi piaci quann’è senza pilu!»


Sostò per un po’ in quell’area di servizio, prima di dedicarsi all’attrazione principale.


Immerse il viso tra le mie cosce e cominciò a leccare l’esterno delle grandi labbra, poi passò al clitoride.


Ci sapeva fare.


Stanco di utilizzare solo la lingua, si aiutò con le dita grassocce. Le infilò, tracotanti e smaniose, e le ritrasse, sempre più velocemente, sempre più efficacemente, senza posa. Distillai brividi e piacere dai movimenti della lingua, donandogli il privilegio di assaporare l’effetto del suo sforzo. Gli concessi libertà d’azione, finché potei, poi gli domandai se si fosse ripreso: era ora di fare sul serio.


Sorrise, sucò un’ultima volta il centro nevralgico, causa di quella goduria, e mostrò la minchia nuovamente pronta per l’uso.


«Pronta pi’ futtiti!»


Lo zittii, in certi casi è meglio tacere.


Mi alzai e lo feci assittare, poi mi accomodai su di lui. Gli afferrai il cazzo, gli strofinai la cappella contro la vulva e lo guidai dentro di me. Ansimammo all’unisono. Cercai sostegno allargando le gambe e spingendo sul divano; Giacomo strinse le dita attorno ai miei glutei. Poggiate le mani sulle sue spalle e curvatami su di lui, iniziammo a danzare. Faticammo un po’ per trovare la giusta coordinazione, lui era frenetico, io più calma. Raggiungemmo un compromesso. Gli cinsi la nuca con le mani, appujai i vrazza supra u’ so cùoddu, e mi spostai leggermente sulla destra, permettendogli di baciarmi il seno e richiamando all’ordine il capezzolo. Sussultai e oscillai, seguendo il ritmo che avevamo scelto.


«Avevi ragione!»


Cercò risposta alla mia affermazione ma, com’era comprensibile, il sangue era stato convocato in un’altra area del corpo; non la trovò.


«Che?»


«Avevi ragione… non è tanto grande, ma ci sa fare!» balbettai, col fiatone.


Cambiammo posizione. Mi sfilai da lui e mi sdraiai; mi fu sopra l’istante successivo, ansimante e un po’ stanco, ma inebriato dalla ricerca dell’orgasmo. Allontanai le cosce e gli diedi il via libera. Entrò in me, strinsi le gambe attorno alla sua schiena e le braccia sul suo collo. Rallentammo per recuperare fiato ed energie. Gli allunghi si fecero meno celeri ma più intensi; ogni colpo puntava al mio piacere in sostituzione del suo. Ancheggiò, avanzando richieste e ritirandole, mulinando e grattando efficacemente, grazie alla forma arcuata del cazzo. Mi disse che c’era quasi, che gli dispiaceva accelerare ma non poteva farne a meno. Lo ringraziai muovendo il bacino a mia volta, assecondando gli attacchi sempre più bruschi e fulminei e andandogli incontro, incitandolo a non fermarsi ora che l’oasi era alla nostra portata. Si curvò maggiormente verso di me, gli morsi una spalla, ma non se ne accorse; tutta la sua concentrazione verteva intorno agli affondi, al paradosso di ricercare la fine ma ritardarla per qualche altro secondo. Mi disse di resistere ed io resistetti. Lottai contro l’orgasmo ormai prossimo ancora e ancora, fintantoché le forze me lo permisero.


Gridai improvvisamente, l’istante in cui avvertii il tremore impossessarsi dei miei muscoli e la serotonina irrorarmi il cervello. Urlai e vibrai, fremetti e mi bagnai. Trasmisi a Giacomo le sensazioni che mi aveva regalato stringendo la morsa in cui avevo intrappolato i suoi fianchi, poi rilassai i muscoli.


«Vinisti?»


Annuii e gli chiesi di alluntanarisi.


«Continua… ma con la bocca!»


Mi leccò alla sanfasò, abbandonando qualsiasi strategia e mirando solamente a rallegrarmi nuovamente.


Non ci volle molto, le dita e la punta della lingua mi fecero venire per la terza volta.


Ero stremata e ansante, i muscoli indeboliti dallo sforzo, ma utilizzai le energie residue per smuovere i neuroni ancora in grado di compiere il loro lavoro, e ringraziai Giacomo. Lo vidi alzarsi, avvicinarsi a me, stinnicchiata n’terra senza forze, stringere le dita attorno alla minchia e ricominciare a minarisilla.


Pochi secondi, qualche colpo e, avendo cura di non sporcare il pavimento con la sua dimostrazione di gioia, mi raggiunse nell’oasi della felicità.


Si sdraiò accanto a me, mi pulì il seno con le dita e provò a baciarmi, ma lo fermai. Rotolò su un fianco e mi fissò. Lo guardai a mia volta e tutto ciò che seppi dirgli fu di non azzardarsi a pagarmi quei cento euro pattuiti.


 


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