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«Ventuno, signore e signori, il banco vince di nuovo!»
Mi sento attirata da quella voce. La raggiungo. Mi siedo al tavolo del Black Jack e faccio un cenno al croupier, lasciandogli capire che ho voglia di giocare. Appoggio i gomiti al tavolo, guardo le carte, punto le fiche che non ho. Perdo per due turni di fila, poi la buona sorte decide di regalarmi il suo favore. Sconfiggo il banco e, in premio, il croupier mi dona un vecchio manoscritto ingiallito.


Noto i giocatori interrompere le loro attività per fissarmi. So già cosa dovevo fare. Inizio a leggere.


NON TRASFORMARTI IN CHI NON SEI...


Sentì le anime dei dannati lamentarsi, in lontananza.


L’entità, nuda come quando fu generata, si guardò allo specchio. Il riflesso di quegli occhi ambrati le rimandò indietro l’odio e la collera che ardevano latenti dentro di sé. Era stanca di quel posto, non lo sopportava più. Dal giorno in cui era stata eletta, aveva iniziato a disprezzare quel luogo di tenebra, a detestare il suono dell’angoscia e, soprattutto, a odiare i suoi sei pari.


Tirò il fiato, conscia dello sforzo che l’aspettava. Si concesse un minuto per concentrarsi, per capire chi fosse e cosa sarebbe potuta diventare alla fine dello scontro.


Sentì le anime dei dannati disperarsi, in lontananza.


“Non trasformarti in chi non sei, sarebbe la tua fine.”


Un principio, una regola per sopravvivere in quel mondo di violenza e calunnia, di dolore e paura.


Il suo sguardo levigò la superficie dello specchio, incontrò la cavità del collo e la strada che conduceva al piccolo seno. Una goccia di sudore abbandonò la sua chioma ramata per atterrarle poi sul fianco, evaporando all’istante. L’aria era già satura dell’odore di fumo e cenere; capì che era pronta, non sarebbe servito a niente posticipare quel momento. Raccattò i pochi indumenti che possedeva e si vestì, agganciando alla cintura un pugnale d’ossidiana, dalla lama nera come il silenzio.


Sentì le anime dei dannati bruciare, in lontananza.


Uscì dalla casupola, percependo lo stesso lamento, ancora e ancora. S’incamminò verso il campo di battaglia, dove già la aspettava Superbia, l’organizzatore dello scontro, tronfio come sempre. Le augurò di divertirsi e poi raggiunse gli altri quattro Vizi capitali, che già si erano accomodati sugli spalti dell’anfiteatro.


«Facciamola finita!», sospirò.


La donna-demone attraversò il porticato e si trovò all’estremo dell’arena. L’atmosfera era soffocante, la pressione enorme. Solo poche torce illuminavano il posto; dovunque persisteva il buio, eterno dominatore di quel luogo. Allo squillo di tromba, dal grande portale all’estremo opposto, la sua sfidante fece il suo ingresso trionfale.


Lussuria, come sempre, era nuda. Numerose lingue di tenebra, del color della notte, le spuntavano fluenti e incorporee dal capo. Gli occhi, ammantati da un velo di cupidigia, salutarono la folla e godettero nell’avvertirne il favore, poi si concentrarono sulla rivale. La schernirono, già convinti della sicura vittoria.


Si leccò le dita e allargò le gambe, mettendo ben in mostra la fica e lasciando agli spettatori il compito di incitarla con i loro applausi. Si accarezzò le labbra e stimolò il clitoride, mentre l’altra mano era impegnata a stuzzicare il capezzolo destro; si preparò per la lotta e iniziò a mugolare. Chiuse gli occhi per un paio di secondi e un lungo bastone, sulla cui cima vi era innestato un cazzo, comparve dal nulla al suo fianco. Lo afferrò.


«Sono pronta!», urlò ansimando.


All’estremo opposto dell’arena, la donna-demone divaricò le gambe e si mise in posizione di guardia. L’odio, suo fedele compagno da un paio di secoli, le incendiò lo sguardo. Le estremità della sua chioma iniziarono a emettere fumo.


«Iniziamo!», sussurrò a se stessa.


Superbia annunciò l’inizio dello scontro.


La donna-demone scattò in avanti, brandendo il pugnale nella mano sinistra e schivando con maestria gli attacchi a distanza dell’avversaria. Sviò a destra all’improvviso per allontanarsi dalla traiettoria dei colpi, poi Lussuria roteò il bastone e lo piantò a terra. Fu investita da una scarica d’energia; le sue vesti, così come il pugnale, trasmutarono in uno sciame d’insetti che si disperse all’istante, lasciando la donna-demone totalmente nuda e disarmata.


«Non è corretto combattere vestita quando chi hai di fronte non indossa nulla, non trovi?», la schernì, facendole l’occhiolino e invitandola ad avvicinarsi.


Un sorriso beffardo si allargò sul viso di Lussuria. La rivale rimase in silenzio, a distanza di sicurezza, concentrata sulla strategia da adottare. Assunse nuovamente la posizione di guardia. La sabbia e le pietre dell’arena le graffiavano le piante dei piedi, ma ignorò il dolore. Strinse le dita, allargò le gambe e abbassò il baricentro. Lussuria se ne accorse e colpì nuovamente il suolo con il bastone. Dal punto di contatto comparvero numerosi cazzi di gomma, che si svilupparono lungo la direzione che congiungeva i due Vizi capitali.


Due di essi colpirono i piedi della donna-demone, che balzò al contatto e si librò nell’aria in una giravolta spettacolare, permettendo agli spettatori di ammirare, per un rapido momento, la bellezza della sua vulva: il corto crine cremisi che le rivestiva il Monte di Venere, le grandi labbra e le ninfe, perfino il sottile filo di fumo che le fuoriusciva dalla vagina.


La donna-demone si avvampò e dalla sua schiena scaturirono due enormi ali di fuoco, che le permisero di planare senza fatica in uno spazio sgombro della minaccia avversaria.


Velocemente com’erano comparse, le fiamme si spensero, lasciando la loro proprietaria con il sopraffiato. Per la terza volta, assunse la posizione di guardia.


«Idiota, non vincerai mai se non mi attacchi!», la derise Lussuria, mostrando i canini affilati.


Per tutta risposta, l’avversaria rimase in silenzio, cercando di recuperare le energie utilizzate per generare le ali di fuoco, i polmoni indeboliti dalla fatica.


«Devo attaccarla io?»


La folla espresse il proprio consenso. Un boato riempì l’arena, mentre Lussuria roteava con grazia su se stessa per farsi ammirare dal pubblico. Si accarezzò nuovamente un capezzolo e l’istante successivo due funi, comparse dal nulla, si attorcigliarono attorno ai piedi dell’avversaria, costringendola a terra. Altre due gemelle le legarono i polsi, ancorandoglieli al suolo.


La donna-demone era vulnerabile. Schiena a terra e gambe divaricate, non riusciva a liberarsi dalla stretta delle corde nemiche. Lussuria si avvicinò lentamente, pregustando la vittoria.


«Il piccolo coniglietto è rimato intrappolato?»


Si chinò su di lei, percependo l’odore acre del sudore e quello pungente della cenere.


«Sei sempre così irascibile. Sai cosa ti servirebbe? Dovresti goderti un po’ la vita!»


Agitò il bastone e quattro falli di gomma comparvero al suolo: due ai piedi e due accanto alle mani della donna-demone. Iniziarono a muoversi di volontà propria, accarezzandole le piante e i palmi, sfiorandola e tentando di stuzzicarle i sensi.


«Non è sufficiente!», rise maligna.


Si avvicinò e, dopo averle puntato il bastone contro la fica, iniziò a massaggiarle il clitoride con l’estremità a forma di pene. La donna-demone chiuse gli occhi nel vano tentativo di resistere. Iniziò a sentire un formicolio nel basso ventre. Il fumo emesso dalla vagina si fece più denso e scuro; percepì l’estrema minaccia risalirle lungo il corpo.


“Non trasformarti in chi non sei, sarebbe la tua fine.”


Quelle granitiche parole le risuonarono in testa. La donna-demone aprì di scatto gli occhi. Le pupille si sdoppiarono e la voce, resasi baritonale, lanciò il suo urlo di battaglia.


«Dies Irae! [1]»


La folla, esaltata da quell’invito, si accodò al grido di Ira.


«Dies Irae, dies illa. [2]»


Lussuria si guardò intorno e si accorse di aver perso il favore del pubblico. Un vortice di fiamme ammantò il corpo di Ira e le sue ali, nuovamente ricomparse, fusero le corde.


La donna-demone scattò rapidamente all’indietro, allontanandosi da Lussuria, graffiandosi i piedi contro le pietre dell’arena.


«Questa è la tua fine.»


Ira s’involò; compì per la seconda volta la piroetta che aveva già permesso agli spettatori di ammirarle la vulva e atterrò direttamente su Lussuria. La colpì facendola stramazzare lunga e distesa al suolo. Il bastone rotolò lontano dalle contendenti e Ira avvolse le sue gambe attorno alla schiena dell’avversaria. La imprigionò in una morsa, con la fica vicina, troppo vicina, alla bocca nemica.


«Ira, sei un’illusa», commentò sarcastica, «Mi hai concesso la vittoria.»


Lussuria iniziò a leccare il clitoride dell’avversaria. Ira percepì nuovamente l’ineluttabilità spandersi dentro di lei. Chiuse gli occhi e strinse le dita dei piedi. La sua rivale ci sapeva fare. Bastò poco per tramutare quel leggero formicolio in un’onda di piacere. Sentiva la lingua calda e umida leccarle il clitoride, ma s’impose con tutte le sue forze di resistere a quel dolce richiamo. Non era ancora giunto il momento.


Lussuria riuscì a liberare una mano; incapace a raggiungere il suo bastone, provò a velocizzare la fine di Ira. Infilò le dita nella fica già bagnata, per completare il lavoro che la sua lingua aveva iniziato qualche secondo prima.


«Hai qualcosa da dire, prima di morire?»


Ira balbettò a denti stretti poche parole.


«Quantus tremor… est… futurus… [3]»


Percepì la marea risalire dentro di lei. Stava per eiaculare.


«Cos’hai detto?», domandò Lussuria quasi preoccupata da quelle parole.


Ira spalancò gli occhi. La sua voce baritonale si spanse per tutta l’arena.


«SOLVET SAECLUM IN FAVILLA! [4]»


La donna-demone tremò. Tremò ed eiaculò. Il liquido fuoriuscì impetuoso dalla sua fica. Prima che potesse raggiungere il volto di Lussuria, s’incendiò, liquefacendo poi all’istante il viso della rivale, che si accasciò al suolo, priva di ogni respiro.


Ira aveva vinto. La folla, estasiata, acclamava il suo nome.


Qualcosa, però, non andava.


La donna-demone rimase distesa al suolo e iniziò lentamente a decomporsi. Le gambe e le braccia furono le prime a sparire, seguite dal torace.


“Trasformati in chi non sei, e questa sarà la tua fine.”


Aveva goduto, diventando lei stessa Lussuria, e per questo stava pagando con la vita.


Gli spettatori osservarono Ira scomparire, increduli e impotenti, giurando però di aver notato un sorriso appagato e felice sulle sue labbra, l’istante prima che svanisse del tutto.


 


FINE.


 


Quelle parole mi hanno regalato un orgasmo intenso.


Restituisco il manoscritto, il croupier mi ringrazia e m’invita ad abbandonare il tavolo da gioco.


Mi alzo, girovago per le stanze, non so dove andare. Poi la sento. Una voce, poco lontano, attrae la mia curiosità:


«Sessantanove rosso, signori e signore. Vince il sessantanove rosso.»


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[1] Dies Irae = Giorno d’ira
[2]Dies Irae, dies illa = Giorno d’ira, sarà quel giorno
[3]Quantus tremor est futurus = Quanto tremore verrà
[4] Solvet saeclum in favilla = dissolverà il mondo in cenere

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