L A   S C E L T A   D I  S O P H I E
 CAPITOLO 4


I giorni passarono abbastanza rapidamente, ma devo ammettere a me stesso che pensai molte volte a Sophie e alla sua reazione. Pensai addirittura di scriverle una mail, chiedendole spiegazioni e scusandomi di qualche eventuale gesto sconveniente.
Avevo cercato a lungo la falla che aveva lasciato imbarcare acqua ma non riuscivo a capire, quindi decisi di lasciare che la vita scorresse.
Non vidi più Sophie Rose, ma continuai a sentir parlare di lei. E, ovvio, cominciai a seguirla su Instagram, dove continuava a postare fotografie in abitini troppo corti e storie brevi sui suoi work-out, che finivano sempre per eccitarmi.
Il ricordo di quella donna, dei suoi gemiti e del suo corpo da pornostar non riusciva a uscire dalla mia mente.
Quello era un martedì di fine maggio, e il freddo aveva deciso di lasciare spazio a temperature un po’ più miti, giacché non ero un grande fan del panettone e dei maglioni a collo alto (nonostante mi stiano davvero molto bene). Avevo avuto anche una tremenda botta di culo quando, intorno alle sedici, il giovane imprenditore immobiliare Luca Martini, famoso per aver stretto partnership commerciali con diversi fenomeni da baraccone dei social network, mi aveva fatto comunicare dalla sua assistente del fatto che l’aereo che avrebbe dovuto riportarlo in Italia da Berlino alle undici non fosse ancora partito.
Michela, si chiamava, l’assistente. Ogni volta che sentivo la sua voce suadente cercavo d’immaginarmi il suo volto.
Ho sempre pensavo fosse bionda.
Salii in auto silenzioso come quando ero arrivato, avevo impostato una playlist di Café del Mar da Spotify e avevo cercato di guidare senza superare gli ottanta orari, perché ero stanco e avevo voglia di una doccia.
 
Però ci pensavo.
 
Sophie era rimasta nella mia mente e da quando aveva sbattuto le porte del mio studio non facevo altro che rivedere la sua espressione impaurita e imbarazzata. Eppure, pensavo, non mi sembrava di aver fatto nulla.
Fu forse la mia erezione, ad averla spaventata?
Quella domanda mi rimbombava ormai da settimane in testa. Sì, forse avrei dovuto scriverle davvero, dicendo qualcosa tipo “Buongiorno, signorina Rose bla bla, sono il Dottor bla bla e sto prendendo atto della tua rinuncia alla terapia che avevamo formalizzato. Resta inteso che rispetterò il mio impegno nel mantenere la riservatezza del caso così come sottoscritto e ancora bla bla. Ma ciò che più vorrei chiederti, grande stronza, è: che cazzo ti è passato per la testa, quando hai liberato la fica, sul lettino del mio studio?”.
 
Oddio, forse dovrò lavorare sul finale.
 
Svoltai in direzione Brera, arrivai sotto casa e attesi silenzioso che il garage si spalancasse. Ero stanco, avevo bisogno di una doccia e di rilassarmi un po’.
Chiusi l’auto e presi la posta dalla cassetta.
- Pubblicità, pubblicità… pubblicità. Fatture da pagare, Enel. Agenzia dell’Entrate…
Sbuffai, inserii il codice dell’antifurto e la porta di casa si aprì da sola. Mi accolsero il silenzio e il profumo dei pavimenti lavati quel mattino da Paula, la colf peruviana che mi segue da sedici anni a quella parte. Viveva assieme ai due figli in un appartamento a Quarto Oggiaro, che era a trenta chilometri da casa mia, ma che raggiungeva grazie alla Ford che le avevo regalato due anni prima.
Si trovava bene, non aveva mai rubato nulla e stava facendo studiare i due ragazzi in una buona scuola, anche se temevo che entrambi spacciassero droga.
Quarto Oggiaro è una zona di merda.
Ma ça va sans dire, non tutti possono permettersi un quadrilocale al centro di Milano.
 
Sembro un classista. Forse lo sono.
Ma ça va sans dire…
 
Entrai subito nella cabina armadio e scalzai le Trussardi dai piedi, sospirando sollevato mentre la frescura delle mattonelle in marmo aiutava a rinfrescarmi. Sbottonai lentamente la camicia, mentre ascoltavo la segreteria telefonica: mia sorella m’informava che per gli ottant’anni della zia Mirtilla avrebbe organizzato una crociera nel Mediterraneo; le avrei risposto che non vi avrei preso parte perché la zia Mirtilla mi è sempre stata incredibilmente sul cazzo, ma non avevo voglia di richiamare mia sorella e cominciare a litigare sulle rate della casa al mare o sulla necessità di riparare la cappella di famiglia al Monumentale.
Ero nudo e camminavo per casa in direzione del mio studio, sorpassando il robottino aspirapolvere che, puntuale, si occupava del corridoio. Mi sedetti sulla poltrona di pelle del mio studio, dai morbidi braccioli, e cominciai ad aprire la posta.
Ma poi guardai il cassetto alla mia destra, il primo, dove, quel giorno portai tutto l’incartamento di Sophie. E quando lo aprii, vidi il plug che la donna mi aveva lasciato tra le mani prima di fuggire via, rotolare in avanti.
E lo presi, ripensando alle sue urla di piacere, alla sua espressione, e poi al calore della sua fica, all’odore delle mie dita dopo averle massaggiato il clitoride.
Pensavo a lei, al suo corpo, all’effetto che aveva avuto su di me e al fatto che avrei voluto vederla ancora, almeno un’ultima volta.
Forse era il ricordo, o quel plug che avevo tra le dita, ma stavo cominciando ad arraparmi.
Il mio cazzo s’induriva al solo ricordo di Sophie. Perché una donna così bella, io, non l’avevo mai vista. Una ragazza dal volto così pulito, dal sorriso ingenuo e dal seno così grande, io, me la sarei solo potuta sognare, quando trattavo unicamente vecchi impotenti, omosessuali latenti e donne indemoniate dalla fica secca.
Presi a toccarmi, tra le gambe avevo alabastro, e nella mia mente c’era quella donna inginocchiata, con la faccia e le tette premute contro l’ecopelle del lettino, e le cosce spalancate, con le mutande a nasconderle la fica ma abbassate quanto bastava per permettermi di giocare col plug e il suo ano.
Cazzo, quanto mi arrapava, Sophie Rose. E così presi a masturbarmi, sognando di stracciare quegli slip di carta e di vedere quelle mani che allargavano le grandi labbra e sfregavano nervosamente il suo sesso. Sentivo il mio cazzo tra le mani, duro e pulsante, mentre la mia mano massaggiava la cappella rosea.
Mi guardavo, immaginavo le sue mani stringermi, segarmi, mentre lasciavano libera la sua fica grondante d’umori.
Nella mia testa, Sophie mi chiamava. Voleva il mio cazzo.
Stesi le gambe, salendo e scendendo su tutta l’asta, massaggiandomi e sentendo la mia eccitazione vibrare furiosamente.
Le labbra di quella donna avrebbero avvolto il mio glande dolcemente, lo avrebbe accolto con amore. L’avrei guardata dritta negli occhi, mentre mi avrebbe succhiato l’anima via dal corpo, e intanto massaggiavo il glande, appiccicaticcio dalla mia eccitazione.
Volevo andare avanti, immaginarla spalancare la bocca e tirare fuori la lingua, per poi scendere quanto più in fondo possibile, fino a farla lacrimare, sull’orlo del soffocamento.
Lo avrebbe tirato fuori, pieno di saliva, lo avrebbe baciato, riaccolto tra le mani. Mi avrebbe succhiato le palle e leccato il buco del culo e poi si sarebbe girata. E sì, la immaginavo col plug nel culo, in modo da allargarlo.
Avrei affondato la faccia in quel culo stupendo, afferrandolo con le mani e stringendo tra i denti il plug, tirandolo, sentendolo resistere mentre il suo ano si stringeva, lasciarlo, ripetere più volte, fino a quando non me lo fossi trovato tra i denti.
Guardavo il plug davanti a me, immobile, a riflettere la debole luce provenire dall’abat-jour nell’angolo dello studio, e istintivamente lo presi tra le mani e lo avvicinai alla bocca, leccandone la punta, immaginandola voltarsi verso di me e sovrastarmi, mettendomi quella fica d’oro davanti al volto.
Il suo clitoride era delizioso, piccolo, grondante d’umori dolci e nutrienti, e io li succhiavo da lei come se fossero acqua nel deserto. Leccavo quel plug come se fosse il suo sesso, prima titillandone la punta, poi la parte inferiore, poi baciandolo, continuando a sentire la mia eccitazione pulsare tra le dita.
Avrei voluto afferrarle il culo tra le mani, in quel momento, spingendole la fica nella mia bocca. Avrei voluto sentirla gemere ancora, gustare i suoi umori, sentirli colare lungo il mio mento e poi infilarle la lingua in gola, per condividere il suo sapore.
E quel bacio così passionale non faceva altro che arraparmi, perché avrei visto gli occhi della donna piegarsi alla morsa del piacere, non appena si fosse lasciata andare sul mio cazzo.
Certo, mi stavo solo masturbando, ma sognavo di sentire il calore della sua fica avvolgermi, mentre scendeva lentamente su di me. Io le avrei afferrato quelle bocce enormi e avrei cominciato a succhiarle i capezzoli, prima al seno destro, poi al sinistro, sentendola muoversi su di me dapprima con gentilezza e poi sempre più velocemente.
L’avrei sentita gemere come una cagna in calore, perché aveva dimostrato quanto avesse fame di cazzo. Sì, avrei voluto sentirla urlare il mio nome, chiedermi di continuare, di non venire, perché le piaceva e voleva godere più e più volte.
E io le avrei detto di sì, anche se sentivo il cazzo pulsare dalla voglia, raggiungendo quel limite da cui non sarei riuscito più a tornare indietro, perché il pensiero del suo corpo che sfregava contro il mio, di quel culo che rimbalzava sulle mie cosce, di quelle tette enormi premute contro il mio petto e delle sue unghie che mi graffiavano la schiena. E allora l’avrei afferrata, dietro, sollevandola e sbattendola contro il muro, e avrei spinto in fondo, fino a vederla perdersi in un orgasmo bagnato e sfinente, prima di consumarmi in lei, fino a riempirla.
Stavo venendo; sentivo i muscoli irrigidirsi e il piacere montarmi dalla prostata e caricarsi lungo tutto il mio corpo, e infine rilasciai il mio getto incandescente sul plug. Ero eccitato dal fatto che quell’oggetto fosse stato dentro al culo di quella donna.
Rimasi un minuto immobile, sfinito, con la testa rovesciata sulla poltroncina e le gambe spalancate, mentre mani e cazzo di grondavano di sperma.
 Sospirai sollevato.
Sapevo che quella mia perversione tra le quattro mura di casa fosse servito a chiudere la parentesi che avevo ancora aperto con Sophie Rose, e la doccia e la conseguente cena furono allietati dalle endorfine che ancora mi ballavano in testa.
 
*
 
L’episodio di Sophie non mi saltò più in mente, dopo quella sera.
Avevo continuato con la mia vita normalmente, infilandomi nei pazienti che mi pagavano per liberarli dai loro pesi mentali. Gonfiavo le loro parcelle e mi facevo i conti per l’estate, che già avevo prenotato due settimane in un resort nelle Galapagos; Pikaia Lodge, si chiamava, ed era un piccolo paradiso di palafitte e passerelle di legno costruite sulle acque verdi ecuadoregne. Era un giovedì di metà luglio, quello, e a due settimane dalla partenza, dopo l’ultimo appuntamento, finivo per rimanere in studio per programmare gl’itinerari quotidiani, leggendo opinioni su vari forum e acculturandomi su usi e costumi.
Lara aveva bussato poco dopo, salutandomi e dandomi appuntamento al giorno dopo.
- Chiudi tutto tu? - mi chiese.
Annuii e alzai semplicemente la mano, a salutarla.
E mi persi nei vari blog di viaggi e siti d’escort, per capire prezzi di posti e persone, senza rendermi conto che il sole stava per cominciare la sua discesa, oltre il finestrone le cui tapparelle erano quasi sempre abbassate.
Mancavano venti minuti alle otto di sera, quando sentii bussare al campanello, ed ero così distratto dalla mia ricerca da pensare che fosse proprio Lara, ad aver dimenticato il suo inalatore o qualcos’altro. Mi chiesi, tra l’altro, per quale motivo non avesse utilizzato le chiavi per entrare, giacché io avrei potuto essere andato via. Invece, quando aprii, appresi con stupore che, quel giorno, Lara, l’inalatore non l’aveva dimenticato.
 
Questo perché non era Lara.
 
Mantenevo ancora la maniglia, fissando silenzioso Sophie Rose, davanti a me. Zitta, lei, col volto basso e gli occhi spenti, mordeva il labbro inferiore mentre, con le braccia incrociate sotto al seno, rimaneva dritta accanto al montante della porta.
Non sapevo cosa pensare ma istintivamente inarcai le sopracciglia, guardando la sua gonnellina a balze, blu a pois bianchi, come le ballerine che indossava.
- Sophie… - le dissi.
Batté le palpebre e sospirò, quasi sbuffando.
- Mi fai entrare?
Le feci spazio e richiusi la porta alle mie spalle, guardandola sfilare nella sala d’attesa.
- È successo qualcosa?
- No… - rispose subito, ancora con le braccia conserte. Si fermò al centro, proprio davanti al banco di Lara e sospirò, guardandomi.
- Se sei qui è perché immagino tu debba dirmi qualcosa… - sospirai, mentre il caldo aumentava. Portai un dito al colletto della camicia e tirai, detergendomi poi il sudore della fronte con l’avambraccio scoperto.
- Sì. In effetti ero nel parcheggio da un po’ di tempo… aspettavo che scendessi, perché non volevo darti fastidio.
- Non mi avresti dato fastidio… - ribattei, portando le mani ai fianchi.
- Dopo i modi che ho avuto quando ci siamo visti l’ultima volta… volevo dirti che mi spiace molto…
- Oh, non preoccuparti. - le sorrisi a mezza bocca, vedendola rimanere immobile. Il suo volto era provato, e l’ombra scura delle occhiaie che aveva sotto agli occhi le dava un aspetto quasi decadente. Sembrava che non dormisse da settimane.
Chiudeva lentamente le palpebre, stanca, nascondendo quelle iridi color nocciola e schiudendo le labbra, grosse e carnose. Ci guardammo in silenzio per un timido secondo, quando sospirai.
- Insomma… posso offrirti qualcosa?
Quella annuì.
- Potrei avere un po’ d’acqua fresca?
- Certo. Accomodati dentro al mio ufficio. C’è l’aria condizionata.
La vidi eseguire, mentre io mi chiedevo cosa fosse successo a quella donna. Camminavo rapido, presi una bottiglia d’Evian congelata e un paio di bicchieri e la raggiunsi, che era ancora in piedi, davanti alla scrivania, ancora con le braccia conserte sotto al seno.
Sorrisi.
- Siediti. Che ci fai ancora in piedi?
- Sì. Grazie, hai ragione…
Poggiai i bicchieri sul piano della scrivania, accanto a una pila di fogli che avrei dovuto visionare e a una rivista medico-scientifica, che avevo sfogliato distrattamente durante la pausa pranzo. Le versai subito l’acqua e gliela porsi, vedendola ringraziarmi con un cenno del capo, poi mi abbandonai allo schienale della mia sedia, incrociando le mani sul petto e vedendola bere, con gli occhi chiusi.
- Sembri scossa… - dissi subito dopo. - Sei sicura che non sia successo qualcosa?
Ingoiò e poi posò il bicchiere, tornando a incrociare le braccia sotto al seno. Guardai fisso nei suoi occhi sfuggenti, fino a quando non parlò, gesticolando vistosamente.
- Mi volevo scusare. Avrei dovuto darti una spiegazione e invece sono fuggita via…
- Almeno mi ridai di nuovo del tu… - ridacchiai, suscitando poi il sorriso anche in lei. - Quando sei andata via mi davi del lei, e dopo che… - e indicai il lettino alle sue spalle, sorridendo. - Insomma, è un po’ strano…
- Mi sono comportata in maniera abbastanza immatura, hai ragione. Ma nella mia mente è partito tutto un turbinio di pensieri e…
Gli occhi di Sophie si alzarono al soffitto, mentre riempiva d’aria i polmoni.
La guardai sorridendo a mezza bocca, cercando di essere quanto più comprensivo possibile.
- Spiegami.
Quelle parole rimbombarono tra le pareti del mio studio. Fece cenno di no con la testa, sbuffando e spostando lo sguardo verso destra.
- Io non… non venivo da tanto tempo. Intendo lì, sotto…
- Sì. - sorrisi. - Lo avevo capito.
- Non riuscivo a raggiungere l’orgasmo da quando stavo con Thomas… E quando è successo con te è come se mi fossi vista dai tuoi occhi, come un’indemoniata con le mani tra le gambe che…
- Sophie… - provai a interromperla.
- … si toccava, e tu sei praticamente un estraneo! Eri lì, mi toccavi, e io ti ho pure pagato per farlo! Questa cosa per me non ha alcun senso! Non ho mai avuto questi problemi! Non sono mai stata così affamata per un orgasmo in tutta la mia vita! Mi sono sentito una malata!
Era così diversa, lei, dalla ragazza con le braccia incrociate sotto al seno che aveva bussato alla mia porta appena cinque minuti prima. Aveva aperto i boccaporti, lasciando che i sentimenti, le sensazioni, i timori che provava fluissero dirompenti come un fiume in piena che inghiottiva qualsiasi cosa trovasse sul suo cammino.
E io mi stagliavo dritto di fronte a lei, rendendomi conto di quanto potere avessero le sue paure, nella sua testa.
Decisi quindi di diventare diga, e bloccare il flusso.
- Questo perché sei davvero malata.
Spalancò gli occhi.
E non so se fu per le mie parole o per il fatto che a dirlo fosse una persona con una laurea appesa alle sue spalle, ma si zittì, terrorizzata. Solo dopo qualche secondo presi a calmarla.
- E bada bene, non ho detto pervertita. Non sei una malata di sesso, hai semplicemente ascoltato il tuo corpo dopo… mesi?
- Sì. - annuì.
- Gli eventi traumatici ci portano ad estremizzare i nostri comportamenti, a volte. Ma posso assicurarti che tutto ciò che è successo durante l’ultima seduta, o quasi, era stato programmato.
Il suo sguardo si addolcì.
- Sono stata presa dalla paura.
- Sbagliando. Alla fine sei riuscita a liberarti…
- È stato stupendo, infatti… Io non so cosa tu abbia fatto.
- Ti ho messa a tuo agio e ho toccato i punti giusti. Niente di più, niente di meno. Avevi bisogno di non sentirti in guerra col tuo corpo e io ho portato la tua mente lontana, in modo da potermela vedere a tu per tu con… - e poi sorrisi, indicandole seno e torace e cosce, rapidamente. - Ti ricordi che cosa ho fatto, prima di metterti le mani tra le gambe?
Mi avvicinai a lei, che rimase seduta a fissarmi.
- Mi hai massaggiato gambe, collo, braccia e schiena. E poi hai fatto quella cosa ai piedi che… ecco, ha funzionato.
- Ho liberato il tuo corpo dalla tensione. Posso? - domandai nuovamente, portandole le mani delicatamente sulle spalle. Ed ero certo che mi avrebbe risposto di sì, perché la sua presenza lì, quel giorno, era una richiesta d’aiuto.
Di fatti la vidi annuire.
Fui leggero, tastai entrambi i trapezi della donna e percepii la resistenza dei muscoli. Lei si lamentò, sospirando e guardandomi dal basso.
- È stato un periodo stressante… - fece. - Ho lanciato il mio brand di costumi da bagno e, ovviamente, sto facendo quattromila servizi fotografici per pubblicizzarlo. Sono anche stata contattata da Skims, il brand di Kim Kardashian… conosci?
- No. - risposi, mentre massaggiavo le spalle della donna. Passai coi pollici a sciogliere le tensioni sul collo. - Ma immagino sia qualcosa di grande.
- Sì. È un lavoro importante, anche in termini di visibilità… E ho appena finito le riprese di quella serie tv…
- Ah. Ottimo. E quando sarà in onda?
- Maggio dell’anno prossimo, credo… - sospirò, alzando la testa e fissandomi.
- Che ruolo hai?
- Una parte minore. Qualche battuta… ma il mio agente sta ricevendo diverse… diverse proposte… - sospirò, mentre passavo a massaggiarle la cute, e qualche secondo dopo le provocai un brivido.
Sorrisi.
- Cielo, amo questa cosa… - sospirò. Alzò poi la testa, poggiando la nuca sul mio addome allenato e mi fissò profondamente negli occhi. Pensai involontariamente che fosse bellissima, con quello sguardo da cerbiatta e le labbra semischiuse.
- Col tuo tenore di vita vuoi convincermi che non vai a fare qualche massaggio?
- Non permetto a nessuno, di toccarmi.
- Quindi immagino che in questo mese e mezzo tu non abbia avuto rapporti di nessuna natura con nessuno.
- Già.
Intanto le mie dita continuavano a infilarsi tra i suoi capelli, dietro la nuca, vicino alle orecchie, alle tempie e poi più su, fino alla fronte. Sentivo il suo respiro appesantirsi, mentre gli occhi si chiudevano lentamente.
- Che dice il tuo corpo?
Aprì lentamente gli occhi, guardandomi con gli occhi languidi. Le labbra semischiuse lasciavano intravedere gl’incisivi.
- Dice sempre un sacco di cose, anche se mi sembra di essere nella pace dei sensi, adesso…
- Io sento una richiesta d’aiuto costante, invece.
Sorrisi, vedendola accigliarsi.
- Sei stanca, Sophie. Hai bisogno di rilassarti e di sfogare quell’energia sessuale che ti tieni dentro.
Abbassò la testa, fissando la scrivania davanti a sé.
- Crede che c’entri il sesso?
Le staccai le mani dai capelli e mi misi davanti a lei, seduto sul tavolo. La fissavo negli occhi, sorridendo, mentre lei era proprio ad altezza cazzo: se avesse provato a farmi un pompino avrebbe dovuto soltanto piegarsi in avanti. In ogni caso sorrisi ed annuii.
- Ho ragione a pensare che per te stia cominciando a diventare un’ossessione?
I suoi occhi si abbassarono per un attimo.
- Non… non ho ben capito la domanda.
- Intendo dire, potrebbe essere che la tua mancanza di naturalezza, in tutta questa situazione, possa aver portato a farti sentire una certa pressione psicologica?
Alzò gli occhi verso di me, seria, stringendo le labbra rosee e inarcando le sopracciglia. La luce del tardo pomeriggio riflesse sui cerchietti d’oro che le pendevano dalle orecchie.
- Dici che la cosa mi stia mettendo un po’ d’ansia?
- Io non la chiamerei “ansia”. - ribattei. - Credo che sia paura. Hai paura di non funzionare più come donna, anche se ti ho dimostrato l’altra volta che funzioni benissimo.
- Ma funziono solo con te… l’altro giorno… - disse, seguendomi con lo sguardo, fino a che non raggiunsi la mia sedia, oltre la scrivania. - … ho realmente provato a mettere un punto a tutta questa storia. Ho comprato un po’ di materiale, uno di quei plug, dei… vibratori… un pisello finto, che poi era gigante, e tante altre cose che ho letto su internet, utili per la… insomma, hai capito… - sussurrò, abbassando lo sguardo e arrossendo.
- Tesoro, non imbarazzarti. Ti ho visto come mamma ti ha fatta.
- Chiedo scusa… - arrossì di nuovo. - Non riesco a farci molto.
- Prosegui.
- Ci ho provato, per un sacco di tempo. Ho guardato un… un porno, cosa che non faccio quasi mai, e, mi sono infilata cose ovunque… e non ce l’ho fatta.
- Quante volte ci hai provato?
- Ci ho provato per una settimana di seguito, senza mai riuscirci.
 
E allora la mia immaginazione fece il resto, sognando a occhi aperti le gambe lunghe e vellutate di Sophie spalancarsi, distesa sul suo letto, enorme, con le coperte di velluto bianco.
Totalmente nuda.
La perdizione negli occhi, la mano destra a stringere una di quelle bocce giganti e la sinistra a mantenere un grosso dildo nero con cui si penetrava. Il plug, sempre presente, brillava lucente nel buco del suo culo.
 
Mi risvegliai d’improvviso.
Sophie mi fissava in silenzio, giochicchiando con l’unghia smaltata del pollice destro.
- Non sono arrivata neppure vicina all’orgasmo.
La sua voce era carica di rimpianto.
- Non eri pronta, evidentemente.
- Non… non capisco.
Annuii e le porsi la mano.
- Andiamo sul lettino.
Spalancò gli occhi, sorpresa, ma non titubò come la prima volta. Afferrò le mie dita e mi guardò negli occhi, e in un attimo capii che quella donna si stava affidando a me. Raggiungemmo il separé e lo aprii, stringendole sempre la mano, invitandola poi a stendersi.
- Come l’altra volta? - domandò, scalzando rapidamente le ballerine e rimanendo scalza sul mio parquet.
Feci cenno di no.
- Supina.
Continuò a fissarmi, con un milione di domande negli occhi, prima che mi avvicinassi a lei, frontalmente, e aderissi petto contro petto.
Mi guardava dal basso verso l’alto, che non avrei mai potuto definirla una gigantessa, e poi la cinsi con le braccia, a raggiungere i gancetti del reggiseno.
- Hey! - esclamò, quando liberai il suo torace da quella morsa. Era stupita.
- Resto il tuo dottore, no?
E poi annuì, dopo un breve secondo.
- E allora levalo da dosso. Rilassati e goditi la libertà… E poi stenditi.
- Devo levare anche la maglietta? Non ho messo i copricapezzoli.
- Non c’è bisogno di alzare la maglietta, non preoccuparti.
Storse leggermente le labbra e poi annuì, sospirando, mentre la vedevo fare quella cosa che fanno sempre le donne quando smontano l’intimo senza levare ciò che hanno al di sopra.
Streghe.
Lo piegò ordinatamente e quando si stese vidi quelle grosse tette ballarle ai lati del petto. Rossa sul volto, lei, mi guardava mentre cercavo in ogni modo di non fissare i capezzoli che facevano capolino sotto al tessuto morbido della maglietta. Lei guardava i poggiagambe, immaginando probabilmente dove quella cosa sarebbe andata a parare.
- Ora cercherò di rilassare un po’ tutta la parte muscolare toracica. Non voglio che ti senta a disagio, quindi, come l’altra volta, se vuoi che io mi fermi ti basterà dirmelo. Senza scappare, cortesemente.
Mi fece la linguaccia e ridacchiammo entrambi, poi le sollevai entrambe le braccia al di sopra della testa. Massaggiai le mani, lentamente, quindi le braccia, andando a distendere la nervatura dei bicipiti e raggiungendo rapidamente i deltoidi.
La vidi riempire d’aria i polmoni e sospirare.
Indugiai qualche minuto su di lei, sentivo i suoi occhi puntati addosso e intanto passavo dai deltoidi al collo, delicatamente, carezzandole la gola e la mandibola, scendendo con entrambe le mani unite sullo sterno, libero dai seni.
- Tutto bene? - domandai.
La vidi annuire, che batteva soltanto le palpebre.
E onestamente, molto onestamente, stesa com’era, avrei voluto salire sul lettino, sovrastarla e infilarle la lingua in gola, riempiendomi le mani con quelle tette e scoparmela con forza.
Mi chiedevo quanto calda fosse, una donna che non riceveva cazzi da tutto quel tempo.
Allontanai il pensiero e scesi delicatamente, seguendo le spalle e la linea sempre più marcata dei seni che si andavano a stendere lungo i fianchi, andandole a massaggiare la parte alto/laterale del petto, in corrispondenza dell’ascella, attraverso la maglietta sottile.
Continuava a fissarmi, con le labbra schiuse, sospirando.
- Oh, cielo… - sussurrò, col tono di chi apprezzava.
- Tette grosse come le tue portano tensione eccessiva sul grande pettorale e sui fasci clavicolari e sternali. Questi muscoli, poverini, non hanno la predisposizione strutturale a sostenere tutto questo peso. Hai il seno di una donna giunonica ma il corpo di una signorina minuta.
E la sentii ridacchiare.
- Nessuno mi ha mai chiamata così. Signorina minuta.
- C’è sempre una prima volta.
Il profumo di Sophie era erotico, e si univa all’odore delle sue zizze, ora libere dalla gabbia del reggiseno, mentre le mie mani continuavano a massaggiare. Sentivo le sue morbidezze sotto ai polsi e la lotta contro me stesso imperversarmi nei lombi. Chiuse gli occhi, forse per un secondo di troppo, dandomi l’occasione di guardare i capezzoli ingrossarsi sempre di più.
Percepii le cosce della donna che si aprivano, involontariamente, ma non dissi niente.
Le piaceva, lo sapevo, e dopo un minuto di respiri sommessi e di capezzoli in bella vista cominciai a eccitarmi. Volevo stracciarle la maglietta di dosso, ma non potevo.
 
Non capivo il perché, ma ogni volta che avevo a che fare con quella donna smettevo di essere un professionista e mi tramutavo in un in preda alla tempesta ormonale più impetuosa che esistesse.
 
E allora decisi di diventare più audace, carezzare il lato dei suoi seni, continuando a fissarla negli occhi, e afferrarli totalmente poco dopo, andando a sciogliere la tensione che si era creata al di sotto degli stessi.
Avevo quelle tette in mano, ed era fantastico. Le stringevo lasciando che i capezzoli turgidi strusciassero contro la maglietta.
La sentii sospirare, mentre le mie mani ancora andavano a premere delicatamente. Il mio sguardo però, era concentrato interamente sul suo. Batteva le palpebre lentamente e respirava con la bocca, lenta, senza mai interrompere il contatto visivo, creando una connessione che tuttora faccio fatica a spiegare.
- Come va? - le chiesi.
Sophie batté le palpebre un paio di volte e sospirò.
- Rilassante… - sorrise maliziosamente.
Guardai poi il suo bacino contrarsi.
- Sei pronta?
Mi fissò.
- Per cosa?
E allora fui io, a fissarla, che ancora le stringevo i seni tra le mani.
- Perché sei qui?
Batté le palpebre, per poi spalancare gli occhi quando, con entrambi gl’indici, andai urtarle i capezzoli.
Lo rifeci, più e più volte, vedendo il suo viso modificarsi a mano a mano, indossando quella maschera di lussuria che, la volta precedente, era riuscita a celarmi perché girata di spalle.
- Quindi? - domandai.
- Sì… - sussurrò.
Continuai a tenere afferrato il seno destro, lasciando il sinistro soltanto perché volevo pizzicarle il capezzolo. E la vidi sussultare, mentre lo stringevo tra pollice e indice.
- Puoi parlare. Tra queste quattro mura sei libera da qualsiasi pregiudizio, la condivisione delle tue sensazioni è importante per l’analisi di…
- Non ora… - sussurrò, respirando ad ampi polmoni. Prese la mia mano e, continuando a guardarmi, se la mise tra le gambe. - Toccami, Dario…
La sua voce era languida e sensuale, e rapidamente il sangue del mio corpo fece capolino nello stesso punto; da sopra la gonna a balze, sentii il calore del suo sesso. La fissai per un timido secondo, prima di sentirmi spingere nuovamente verso il basso.
- Certo.
Allargai le dita e tirai su la gonna, guardando le mutandine nere spuntare fuori. Le cosce di Sophie si spalancarono, dandomi l’opportunità di scendere più in basso, oltre il monte di venere, dove, umida com’era, mi accolse con un gemito. Le strinsi il seno e cominciai a toccarle la fica attraverso quello slippino sottile, bagnandomi dei suoi umori e sentendola vibrare come la corda d’un’arpa sotto ogni mia sollecitazione.
Suonavo quella donna come se fosse uno strumento, vedendola contorcersi sotto ogni mia carezza. Stringevo quel capezzolo, lo torcevo e lo premevo, mentre il mio indice faceva su e giù nell’autostrada umida che le si era creata sulle mutandine. Sentivo il suo sesso continuare ad emettere liquidi bollenti e io non smettevo di masturbarla, con una lentezza quasi straziante, che non faceva altro che aumentare il suo desiderio.
Non ebbe molto da ridire, infatti, quando decisi di lasciare il capezzolo e infilare la mano sotto la sua maglietta di cotone, andando ad afferrare la morbidezza delle sue tette.
La cosa migliore mai fatta nella mia vita: il seno di quella donna era soffice e profumato e il suo capezzolo era turgido e ruvido. Controllai per un attimo il suo volto, sperando di non vederla contrariata, ma indossava ancora quella maschera d’eccitazione, che non faceva altro che arraparmi in maniera tremenda.
Sophie era sotto le mie mani e avrei voluto stracciarle i vestiti da dosso, metterle il cazzo davanti alla faccia e vederla succhiarmi via tutte le energie.
 
Perché in fondo sapevo che lo avrebbe fatto.
 
Scacciai quel pensiero, che ormai era un chiodo fisso; un gemito della donna mi riportò nel mio studio.
- Tutto bene? - domandai.
- Sì… - ribatté lasciva, mentre stringeva i bordi del lettino.
E allora sorrisi. Lasciai la presa dal seno e abbandonai le sue umidità, per vedere gli occhi della donna aprirsi lenti. Ansimava vistosamente.
- Non… non farai come l’altra volta? - chiese, suscitandomi il sorriso. Umettò le labbra con la lingua e puntellò i gomiti sul lettino, sollevandosi leggermente. Guardai i suoi occhi, semischiusi, che mi fissavano adoranti.
- L’altra volta sei stata impaziente.
E poi vidi il sorriso esplodere sul suo viso meraviglioso.
- Ero davvero vicina, l’altra volta…
- Sei impaziente…
Ci scambiammo uno sguardo divertito, poi mi allontanai dal lato e mi misi davanti a lei, afferrando le cosce toniche e mettendoli sui poggiagambe, spalancandoli e rendendomi conto di quanto sottili e bagnate fossero le sue mutandine.
La guardai, mi guardò.
- Oggi voglio insegnarti il valore della pazienza, e regalarti il premio di chi sa aspettare...