Stringendo il leggero corpo in un pesante nero-velluto, vagavo per le buie strade di Parigi in cerca di riposo -il massacrante turno lavorativo, costringeva il mio rientro in sera ormai tarda-. 
Guardavo attenta il marciapiede tiepidamente visibile: nascosto dall'oscurità che macchiava come pesante e nera coltre la mia città natale. Oscillando come ubriaca, deambulavo diffidente reggendo a mala pena il peso sul traumatico tacco -in quel momento mio nemico-. 
Distratta dai miei passi e persa in pleonastici pensieri, continuavo a tener dritta la strada senza curar l'andamento dell'ormai stanca camminata. 
La mia mente, eclissata al batter delle mie scarpe, vagava in cerca di totale pace quando, l'esiziale evento diroccò il senso di quiete percepita. Insultate da pesanti e goffi passi, le mie orecchie concentrarono l'attenzione a un più violento andamento alle mie spalle.  
Donando non troppo peso al fastidioso rumore, consapevole del fatto che di lì a poco avrei dovuto cambiar strada, ignorai la scalpitante simil-galoppata. Imboccato come di consueto, lo stretto e ancor più pece, corridoio di catrame, attesi affrancata lo scomparir della sommessa andatura alle mie scapole. 
Gli edifici, al lato della strada, parvero piegarsi sulla stessa quando, compunta dal terrore seguitai ad ascoltar l'ormai infinito incedere; l'oscurità discesa in nebula sul andito sconnesso, divenne pesante e di troppo. Accelerando volutamente la stordita falcata, pregai a me stessa il termine di quella passeggiata; battendo ancor più forte gli acuminati tacchi sulle grosse pietre incastrate tra loro -atte a formar il marciapiede- cominciai a tener il ritmo dei passi dietro al mio timorato andamento. L'ipotetico disastro; la predetta sciagura, divenne tragica realtà quando, in un singolo batter di ciglia, accusai veemente stretta alla coperta spalla. 
Arrestata nel cammino dalla violenta presa, volsi incerta il viso all'ignoto trattenitore. L'esser, mutato dal buio e dall'ancor più scuro vestiario, apparve alla mia vista; gli occhi, invisibili sotto la visiera di un berretto nero, conferivano all'uomo un più criptico aspetto. Le sue mani, pesanti come fatte in cromo, mostravano l'olivastra carnagione offesa da qualsiasi imperfezione. Intarsiato sul volto, un beffardo sorriso; la nauseante orale igiene, esibiva i brutali sintomi sulla fattura dei denti dell'aguzzino: essi apparivano marci e fetidi alla sola vista. 
L'uomo, dalla possente massa corporea, adagiò tranquillo il marchiato palmo sulla mia chiara capigliatura cingendo i fili di proteine solide nella salda e mascolina presa. Provocando atroci dolori al mio cuoio capelluto, costrinse la mia esile forma in ginocchio; scassinando goffamente la cerniera dei grossi e spessi pantaloni in doppio denim scuro, propose al mio viso ottenebrato -seppur rassegnato- dall'evento in corso, il tronfio e palpitante sesso. 
L'iride mia -allargata dall'ansietà-, come stampante a getto-inchiostro eccepiva memorizzando le fattezze del borioso uccello. La punta dell'arnese, nelle tonalità bordeaux, appariva più ampia del venoso fusto. 
Minacciando il mio viso, assicurò in una frazione di secondo, il taurino cazzo alla mia bocca; scivolando l'affare sulla mia umida lingua -servendosi dei miei biondi come appiglio-, l'uomo intraprese la non-consensuale copula feroce. Inghiottendo stomacata l'acre sapore, osservai a stento l'espressione del malato. Egli, compiaciuto dalla sottomissione, approfittò della mia bocca per sei minuti e venti circa; catatonica, contavo nell'abbuiata mente lo scorrer dei secondi. Le mie non-più colorate labbra, bastarono al demonio fatto carne. Lanciato il mio corpo -come utilizzato oggetto: usa e getta- sul fetente marciapiede, compose le sue braghe voltando a me le spalle. 
Elargendo un maniacale sorriso sulla corrotta bocca, levai il mio corpo come cadavere tornato alla vita. Liberando le cosce dal sempre-pesante velluto nero cucito in tubolare vestito, strinsi nella destra la madreperla di un serramanico che ero solita tener nelle in pizzo giarrettiere: durante le notti di caccia. 
Avvicinando la schiena del malcapitato -non ancor troppo lontano-, raggiunsi il disgraziato con due prime e veloci pugnalate alla dorsale spina. La lama, perfettamente affilata all'occasione, lacerò le umane carni producendo un umido e atroce suono: la vittima, squarciando la gola al dolore, cercò le ferite spalle a tentoni. Offrendo il petto alla mia arma bianca, voltò con difficoltà il lacerato corpo. Abbracciando fremita l'omicidio, pugnalai ancor e ancora il busto del poveraccio.
L'uomo, ormai completamente steso sulle buie rocce, accusò la mia ferocia ripetuta trentasei volte; cercando di coprir il viso alla mia atrocità, collocò il calloso palmo sul quasi-morto occhio. Mutando ancor un'ultima volta in efferata assassina, trafissi il dorso, inchiodando la mano alla pupilla dell'oppresso; ansimando alla vita, il carnefice -in realtà vittima-, giaceva supino sulla strada. 
Conquistando il malato fardello tanto ambito, cominciai ad allestire un pornografico teatrino con la morte: sollevai l'abito dal corpo, scoprendo la nuda vulva. Adagiando in seduta sul petto del necro-giocattolo, iniziai una triviale e psicopatica masturbazione recitando alla luna:   
«Morte, madre dell'uomo all'apice della creazione;
Morte, vera e unica espressione della parità. 
Tra le tue braccia, uomini o donne di ogni colore, ogni sociale classe divengono polvere allo stesso modo. 
Morte, madre dell'uguaglianza».

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