Non ho abbastanza fantasia per inventare storie, posso solo attingere a lontani ricordi. Racconto fedele in ogni dettaglio.

Tutto accadde quell’unica volta che partecipai a un motoraduno nei pressi di Rimini. Non ricordo se nell’86 o nell’87; ma forse era già l’88. Quello che invece ricordo con assoluta certezza è il mese: giugno; intorno alla metà di giugno, per l’esattezza.
Lo ricordo bene, perché veniva al termine di periodo terribile per me. Enormi difficoltà sul lavoro che da sole mi avevano portato sull’orlo di molte crisi di nervi; in più le conseguenze di una storia con la moglie di un mio collega. Lui era venuto a conoscenza della cosa e, pur mantenendo un dignitoso aplomb da cornuto sofferente, era diventato un mio implacabile detrattore. In famiglia l’atmosfera era più pesante del solito standard (che già era piuttosto elevato a cose normali), perché mia moglie, anche senza avere notizie certe, aveva comunque percepito un forte odore di bruciato. Insomma alle soglie di quell’estate ero una corda di violino tesa fino quasi al punto di rottura; reagivo fuori misura ad ogni minimo stormire di vento.
Bene. Io, motociclista da sempre, figlio di motociclista, che nella mia indole un po’ anarchico-individualista avevo sempre snobbato i motoraduni, quel giugno decisi che era giunto il momento di cogliere l’occasione per fare questa nuova esperienza. Non tanto perché mi fosse sorto l’irrefrenabile desiderio di aggregarmi a una turba di smanettoni, ma perché mi si offriva un’occasione per lasciarmi alle spalle, almeno per qualche giorno, città, lavoro, moglie, figli, bollette, colleghi cornuti e mogli troie di colleghi cornuti. Partii un venerdì mattina di buon’ora, una di quelle fresche e luminose mattine di giugno, ghiotte promesse di estate, con un cielo così azzurro e profondo che mi pareva di averci la testa infilata dentro. Ero soltanto al casello dell’autostrada che già avvertivo i primi benefici effetti sull’umore. Mi gettai in autostrada come un falco in picchiata e feci almeno un centinaio di chilometri senza scendere mai sotto i 170 all’ora, nemmeno sul tratto appenninico. Dopo, placato, rallentai fino ad adagiarmi su una velocità di crociera da panda in rodaggio, viaggiando con la visiera alzata per godermi il vento in faccia. E me lo godetti fino all’arrivo, insieme a una carta geografica d’insetti di vario calibro spiaccicati sulle lenti dei miei occhiali da sole. Arrivai al punto di raccolta, dove mi indicarono un campeggio poco lontano, riservato ai partecipanti. Di partecipanti non ce n’erano ancora molti, ma mi resi subito conto che non avrei avuto modo di fare molte amicizie. C’erano ragazzotti vocianti e già pieni di birra ancora prima di mezzogiorno con moto stradaiole da pieghe; altri erano coppie per benino, con la moto più costosa sul mercato, che indossavano l’abbigliamento più chic, possedevano i caschi più cari e si esibivano come modelle in passerella. E poi c’era un gruppetto di età variabile tra i venti e i sessanta, lunghi capelli incolti, giacche di pelle nera con borchie e teschi. Un po’ selvaggi “de noantri”. Uno di loro, barbuto e supertatuato, che emanava anche a distanza un forte odore di concimaia, esibiva un bell’adesivo di San Cristoforo attaccato al cruscotto della rombante e aggressiva Harley Davidson nera. Questa casuale aggregazione di gente così diversa, unita solo dal piacere di possedere e qualche volta usare una motocicletta, mi piaceva e mi faceva provare una astratta ma fraterna solidarietà nei confronti di tutti. Mi sentivo rilassato per la prima volta da mesi. Mi cercai un angolo che fosse un po’ più appartato e lo trovai sotto un giovane platano solitario, alla cui ombra montai rapidamente il mio igloo. La brezza di giugno proveniente dal mare, transitando dalla cucina del ristorante del campeggio, mi portava un fumoso aroma di carne alla brace che risvegliò il mio appetito in una misura che non provavo almeno dal settembre dell’anno precedente. Dopo il pranzo a base di braciole di mammuth, tornai alla mia tenda e feci due scoperte. Prima: non era più all’ombra, proprio nell’ora di maggior bisogno, quella più calda; seconda: avevo un vicino che aveva montato la tenda sotto lo stesso platano, e lui sì, che era opportunamente all’ombra. La tenda era una vecchia canadese lisa e stinta, la moto una veterana Guzzi, nemmeno troppo ben tenuta. Da quegli indizi immaginai che il mio vicino fosse una coppia di mezza età alla ricerca di nostalgici ricordi e perdute (o forse sempre conservate) abitudini di gioventù. Beh, almeno non sarebbero stati dei vicini troppo rumorosi.
Mentre continuava ad affluire sempre più massiccia la truppa di motociclisti, montai in sella al mio fedele cavallo e me ne andai a fare un tour personale e anarchico lungo la costa in direzione sud. Me ne stetti fuori tutto il pomeriggio, andai a fare il turista a Pesaro e Fano, che non conoscevo, quindi mi fermai a cenare in una pizzeria sulla strada del ritorno, dalle parti di Cattolica, se ben ricordo. Rientrai al campeggio che da già si era fatto buio. Lo trovai agitato da capannelli chiassosi e ridanciani, molto allegri, festosi e avvinazzati. Se fossi rimasto lì, invece di fare il cavaliere della valle solitaria, certamente avrei fatto qualche conoscenza; avrei potuto aggregarmi e condividere tutta quell’allegria, andare poi a dormire piacevolmente avvinazzato. Invece mi comportavo sempre da asociale inguaribile snob, me lo rimproverava sempre anche mia moglie. Ma mi sentivo rilassato e sereno, una sensazione che avevo dimenticato da tempo immemorabile: in fondo mi andava bene così. Mi diressi verso l’angolo appartato che ospitava la mia tenda, il fascio di luce del fanale della moto illuminò per un attimo una figura seduta in terra, appoggiata al platano. Vidi il riflesso di un paio d’occhiali e il puntino rosso di una sigaretta che divenne più luminoso dopo che il fascio di luce fu passato oltre. Dopo tutto il mio vicino non era una coppia di mezza età, ma un altro personaggio schivo e forse snob. Parcheggiai la moto vicino al mio igloo, poi percorsi i dieci passi che mi separavano dal platano.
“Scusa se ti ho disturbato con il fanale.”
Stavo per concludere l’intera giornata senza avere scambiato una parola con qualcuno che non fosse un cameriere. Un po’ di inutile conversazione prima di andare a letto era quello che ci voleva, magari solo per non confermare le opinioni di mia moglie su di me. E poi, in fondo non eravamo tutti lì per socializzare?
“Vuoi una sigaretta?” fu il suo modo di rispondere alla mia iniziativa socializzante.
“Grazie, perché no? Di solito non fumo, ma un’eccezione si può fare”.
Mi feci accendere la sigaretta e mi sedetti accanto a lui. Nella semioscurità vidi che era sulla trentina, portava occhiali da vista con montatura di metallo leggera. Un professorino: mi sembrava un po’ fuori posto, come la sua tenda lisa e la moto antiquata ma non ancora d’epoca, solo vecchia. Fumammo in silenzio per qualche minuto poi, visto che era un conversatore anche peggiore di me, mi decisi a rompere il ghiaccio.
“Non ti aggreghi alla baldoria generale?”
“Mah. Non voglio apparire serioso, ma non è il genere di baldoria che mi diverte. E nemmeno te, mi sembra.”
“Sì, nemmeno io mi diverto molto in circostanze come queste. E’ la prima volta che vengo a un motoraduno. E’ stato solo un pretesto per staccare qualche giorno da una quotidianità che negli ultimi mesi è stata un po’ pesante. E te? Cos’è che ti ha portato fin qua?”
“L’ultima volta che sono venuto a un raduno è stato…(ci pensa un attimo aspirando una boccata di fumo)… otto anni fa. Sì, otto, avevo ventuno anni. C’ero venuto con altri tre amici e c’eravamo divertiti molto. Forse sono venuto per nostalgia, per il desiderio di fare una specie di pellegrinaggio nella mia gioventù; tra due settimane mi sposo”.
“Beh, complimenti. Ti assicuro però che queste cose si possono fare anche dopo sposati. Io sono sposato da quindici anni, ho due figli, eppure sono qui anch’io”.
“Già, ma per evadere, se ho ben capito”.
Ridemmo cortesemente; poi continuammo a conversare ancora per un’oretta. Parlammo di donne, di matrimonio, del logorio della vita moderna, di lavoro, di motociclette, di calcio e di quant’altro due italiani degli anni ottanta, assolutamente estranei tra loro, potevano parlare sotto un cielo stellato di giugno. Alla fine ci trovammo d’accordo che la mattina dopo invece di intrupparci con gli smanettoni lungo le strade dell’entroterra riminese e del Montefeltro, come da programma, ce ne saremmo andati a prendere il sole sulla spiaggia di fronte al campeggio e, se la temperatura dell’acqua fosse stata accettabile, avremmo fatto anche il primo bagno della stagione. Solo quando ero mi già infilato nel sacco letto e stavo per prendere sonno mi ricordai che non ci eravamo nemmeno presentati.
Come convenuto la mattina dopo ci trovammo al bar di fronte alla spiaggia a fare colazione, dopo che il possente coro delle marmitte si era allontanato oltre la gettata delle nostre capacità uditive. Mi ero svegliato felice di scoprirmi lì invece che nel mio letto di casa, sobriamente euforico di tanta libertà. Colmammo la lacuna delle presentazioni, si chiamava Walter e veniva da Trieste. Di giorno l’aria da professorino si stemperava in quella da bravo ragazzo, riservato, un po’ timido. La spiaggia di giugno, nonostante il fine settimana radioso, non era affollatissima e ospitava soprattutto coppie anziane e mamme con bambini in passeggino. Ci mettemmo in costume e ci sedemmo a prendere il sole già estivo. Anche fisicamente Walter aveva qualcosa di adolescenziale: pelle liscia, pochi peli castano chiaro come i capelli, fisico più magro che asciutto. La mattinata trascorse in modo piacevole. Pigramente sdraiati sui nostri asciugamani a prendere il sole parlammo a ruota libera senza che nessuno di noi due si sentisse obbligato a tenere desta la conversazione. Alla fine questo ci rese sciolti, e perciò più loquaci e disponibili alla confidenza, se non alla confessione. Mi lasciai andare e gli vomitai addosso tutti i guai dell’ultimo anno, compresa la squallida vicenda della moglie troia del collega cornuto con aplomb. Anche Walter si confidò parlandomi della sua famiglia, ma soprattutto dell’accelerazione improvvisa che aveva avuto la sua vita nel corso di pochi mesi: prima la laurea in ingegneria, poi subito un lavoro di grossa responsabilità; infine il matrimonio con Irene tra due settimane. Il vero motivo della sua fuga al raduno di motociclisti con una tenda presa in prestito e la vecchia moto di suo padre, alla fine, non era molto dissimile dal mio: il bisogno di una breve sosta “altrove”. Mi parlò molto a lungo della sua quasi-moglie, con la quale evidentemente c’era un legame molto solido e profondo. Stavano insieme fin da giovanissimi, da oltre dieci anni.
Un leggero pizzicore alla pelle ci fece rendere conto che stavamo al sole da ore e rischiavamo davvero una bella scottatura. Soprattutto Walter, con la sua glabra pelle nordica. Ci tuffammo per una breve nuotata in un mare a temperatura non propriamente estiva; quindi ancora in costume andammo a mangiare in una trattoria sulla spiaggia. Non ricordo esattamente cosa mangiammo, ricordo solo che il cibo era tanto, era romagnolo ed era grasso; ma soprattutto che lo innaffiammo con molto, molto sangiovese. Al momento di alzarci da tavola la testa e le gambe ci suggerirono di andare a metterci sdraiati da qualche parte. Ancora al sole sulla spiaggia non era il caso, restava il campeggio, che del resto era a pochi passi. Arrivati più o meno barcollanti alla tenda: amara sorpresa (per me). Il mio igloo stava ribollendo sotto il sole delle due; impossibile pensare di entrarci a riposare per la pennichella. Mi sedetti a terra e mi appoggiai al tronco del platano, deciso a schiacciare lì il mio sonnellino. Walter si tuffò (o cadde semisvenuto) dentro la sua logora canadese, che stava godendo della preziosa ombra dell’albero. Dopo qualche attimo sentii la sua voce un po’ strascicata da avvinazzato che mi diceva: “Dai, prendi il materassino e vieni qua dentro, che si sta bene. E’ una tenda da tre posti, ci stiamo.” Ero già mezzo addormentato, mi ci volle un minuto per capire chi aveva parlato, un altro minuto per realizzare quello che aveva detto, tre minuti per alzarmi e altrettanti per prendere il materassino, portarlo nella tenda di Walter accanto al suo e caderci pesantemente sopra. Dopo di che mi ci vollero circa otto secondi per schiantarmi in un sonno nero e profondo. Non saprei dire per quanto tempo sono rimasto sprofondato in questa catalessi prima che la mia coscienza si risollevasse a livello di un confuso dormiveglia, durante il quale ripresi una vaga consapevolezza di dove mi trovavo, con chi e in quale circostanza. Rimasi ad occhi chiusi a godermi il quieto intorpidimento del caldo, dell’inattesa vacanza, del vino, della digestione. Ma avvertivo qualcosa che moderava il mio torpore, e lo rendeva meno intenso; qualcosa d’inconsueto vicino a me e che non percepivo con uno dei cinque sensi, ma sentivo nell’aria. Non senza fatica socchiusi appena gli occhi e quello che vidi nella fessura tra le ciglia mi lasciò esterrefatto. Walter stava appoggiato sul gomito e osservava il mio sesso fasciato nello slip, mentre una mano scorreva lenta su un membro piccolo e ben fatto, liberato dal fastidio del costume abbassato alle ginocchia. Non feci in tempo a riprendermi da quella sorpresa che subito ne ebbi un’altra, questa volta non da Walter, ma dal mio uccello, che cominciò inopinatamente a indurirsi. “Cosa fai? Stai giù, stai giù!” mi dicevo dopo avere subito richiuso gli occhi. Niente da fare, anche ad occhi chiusi continuavo a rivedere la scena di Walter che si masturbava con scientifica lentezza, mentre sentivo che il mio pene continuava a pulsare e ingrossarsi. Ecco, stava per arrivare all’elastico dello slip un po’ abbassato, Walter non può non essersene accorto; c’è arrivato, lo supera, si fa strada per uscire, la punta adesso è fuori, quasi tutto il glande è oltre l’elastico. Sono eccitato e imbarazzato al tempo stesso. Mi chiedo cosa stia facendo Walter, immagino che a vedermi così la sua eccitazione sia ulteriormente aumentata. Mi manca il coraggio di aprire gli occhi e guardare la realtà. L’indecisione dura poco: un tocco leggero e inaspettato, una carezza quasi timida mi strappa un gemito e mi costringe a mettere fine alla finzione. Apro gli occhi e guardo Walter; lui interpreta come un’autorizzazione il mio sguardo e il precedente gemito di piacere. Forse lo erano. “Lasciati andare” mi dice in sussurro sorridente mentre mi abbassa il costume; poi mi afferra il pene e comincia a muovere la mano con la stessa studiata lentezza con la quale lo faceva prima su di sé. Mi piace, mi piace, ma non riesco a lasciarmi andare del tutto. Vedo a portata di mano il suo piccolo membro nella gloria di una possente erezione. “Forse si aspetta che io faccia altrettanto” penso, ma non me la sento. Cerco di seguire il suo consiglio e di lasciarmi andare al tocco della sua mano, che sembra sapere molto bene come prolungare il piacere, quando accelerare e quando fermarsi un attimo per impedire la fine del gioco. Finalmente mi arrendo alla sua carezza e per giustificare ai miei occhi questo abbandono mi dico che da almeno una decina di giorni non faccio sesso, e che in fondo una mano che masturba è sempre una mano che masturba, a chiunque appartenga. Adesso non è più solo una mano, è la punta di una lingua quella che sfiora leggera il frenulo e mi strappa un gemito ancora più forte. Una lingua sapiente che si fa più audace, scorre lenta lungo l’asta fino ai testicoli e poi risale. Ed è una bocca, una bocca a quel punto attesa e desiderata, quella che avvolge il mio membro e lo succhia e lo lappa con forza e delicatezza. Ormai è solo il desiderio di sesso quello che m’invade il cervello, comanda e muove le mie azioni. Allungo la mano a cercare il suo sesso rigido. “In fondo non è molto grosso” mi dico, come se questo rendesse il mio atto meno “da omosessuale”, e comincio a masturbarlo con la frenesia che sgorga dal piacere che Walter sta dando a me. Il mio gesto, forse inatteso, gli provoca come una scossa che si trasmette dalla sua bocca al mio membro. Un brivido mi corre lungo la schiena, fino ai testicoli e un orgasmo dirompente gli riempie la bocca. Non ho ancora finito di venire che avverto gli spasmi del suo piacere e un abbondante fiotto liquido colpisce il mio braccio e bagna la mia mano. Col respiro affannoso restammo ancora nella posizione nella quale ci aveva fulminato l’orgasmo. Sentivo il suo membro nella mia mano bagnata e appiccicosa farsi tenero e ancora più piccolo; mentre il mio si stava riducendo, annegato nella sua bocca piena del mio sperma. Ci separammo per rimetterci supini sui materassini. Walter mi porse dei fazzoletti di carta con i quali pulii la mia mano, mentre lui si asciugava le labbra.
“Questa proprio non me l’aspettavo” fu tutto quello che riuscii a dire mentre mi tiravo su il costume.
“Se devo essere sincero nemmeno io” fu la sua risposta. Mi chiesi se fosse davvero sincero.
“Non ti è piaciuto?” mi domandò mentre uscivo dalla sua tenda col mio materassino.
“Anche troppo” fu la risposta che mi uscì di getto, prima che riuscissi a trovarne una più diplomatica.
Ora che l’eccitazione era passata mi sentivo sconcertato; dovevo elaborare quello che era successo. Troppo forte era stata la sorpresa per le mie impreviste reazioni di fronte all’approccio di Walter. Mi vestii velocemente, presi la moto e uscii dal campeggio proprio nel momento in cui rientrava la rumorosa truppa dei motoradunisti dal tour nel Montefeltro. A caso mi diressi verso nord, in direzione Cesenatico-Cervia. Niente più di un giro in moto può favorire un reset mentale. Bastarono pochi chilometri perché avvertissi per intero la piacevole sensazione di sentirsi scarico, nella testa e nelle gonadi. Non pensai più a quello che era successo e che mi aveva così turbato appena qualche decina di minuti prima. Rientrai al campeggio per l’ora di cena. Soltanto allora Walter e quello che era successo con lui tornarono ad essere al centro dei miei pensieri e anche di qualche interrogativo su di me e sulle mie reazioni. Ancora una volta lo trovai seduto in terra, appoggiato al platano. A vederlo provai una strana e controversa sensazione, un misto di imbarazzo e di eccitante e virile complicità. Fu lui a rivolgermi subito la parola non appena sceso dalla moto.
“Che ne dici se andiamo a mangiarci una pizza? Mi è stata consigliata una pizzeria qua vicino che pare faccia delle quattro stagioni formidabili”.
Rimasi stupito della sua assoluta imperturbabilità, proprio mentre io invece stavo faticando a mantenere la mia e continuavo a chiedermi se non stesse uscendo una qualche mia natura finora rimasta sepolta. Certamente non potevo negare a me stesso che l’esperienza mi era piaciuta, e mi era piaciuta molto.
“Mi sembra un’ottima idea” risposi con finta disinvoltura.
Al tavolo, in attesa della pizza, sorseggiando una birra di proporzioni bavaresi, riuscii a trovare il coraggio di sputare il rospo:
“Non so cosa mi sia preso oggi, ma, senza offesa, io non sono omosessuale. Ma è vero che tra una settimana ti sposi? Oppure me lo hai detto per abbassare le mie difese?”
“Tra due settimane mi sposo, non una. E nemmeno io sono omosessuale.”
La sua risposta mi sconcertò. Tutto qui quello che aveva da dire? Liquidava la cosa così, come se fossimo due ragazzini che si sono fatti una sega di nascosto?
“Ah non sei omosessuale? E allora quello che è successo oggi come lo chiami?”
“Imprinting” rispose serafico, senza aggiungere altro.
Il mio stupore aumentò, stava quasi per sfociare in irritazione, ma l’arrivo del cameriere con le pizze prevenne ogni mia replica. Dovetti aspettare che si fosse allontanato prima di formulare la più logica e conseguente delle domande:
“Mi puoi spiegare questa storia dell’imprinting, o sono troppo indiscreto?”
Rimase un attimo in silenzio a riflettere mentre masticava il suo primo boccone di quattro stagioni, poi rispose:
“Per la verità sì, sei un po’ indiscreto, perché mi chiedi qualcosa che solo due… tre persone conoscono. Ma posso anche raccontartelo, tanto sei uno sconosciuto e quando ripartiremo da qui non ci vedremo più. E poi credo anche di dovertelo. L’imprinting di cui parlo è ovviamente quello sessuale. A diciotto anni ero ancora un bambinone, figlio unico di genitori anziani, cresciuto in un ambiente un po’ vittoriano dove era sconveniente anche solo accennare ad argomenti che avessero lontanamente a che vedere col sesso. Non avevo ancora un orientamento sessuale di alcun tipo, sfuggivo le ragazze perché ne avevo paura, con gli amici, che poi erano solo qualche compagno di scuola, ero più che riservato. Mi trovavo questo coso tra le gambe sempre in tiro e mi causava un confuso e costante disagio. Mi ero accorto che a letto, strofinandolo contro le lenzuola a pancia in giù, succedeva una strana cosa che mi lasciava bagnato e pacificato per un po’. Ed era anche molto, molto piacevole, ma non sapevo se era una cosa da fare, se fosse moralmente giusto, se fosse dannoso alla salute. Soprattutto non sapevo a chi domandarlo. Ero arrivato all’anno della maturità liceale ancora puro nel cuore e illibato nel corpo, passando indenne tra le tentazioni delle mie coetanee e l’esuberanza testosteronica dei miei coetanei.”
Lo diceva sorridendo, in tono scherzoso, come se la cosa adesso gli apparisse molto divertente. Io pensai che se una cosa del genere fosse capitata a me ora sarei molto incazzato e pieno di rimpianti per tutti gli anni sprecati.
“Proprio in preparazione per l’esame di maturità cominciai ad andare a lezione d’italiano e di storia, dove ero stato sempre un po’ debole, da un professore che abitava due piani sopra al nostro appartamento. Era un uomo sulla quarantina, molto simpatico e cordiale, che trattava i ragazzi come me senza alterigia, alla pari. Era una di quelle persone che ti fanno sentire sempre a tuo agio, che hanno sempre l’atteggiamento giusto e la parola giusta per accorciare le distanze. Immagino che ora tu cominci a capire.”
Infatti adesso cominciavo a intuire la storia dell’imprinting.
“Senza farla tanto lunga, ti dirò che nel corso dei mesi durante i quali con regolarità bisettimanale sono andato a lezione, ha saputo sedurmi in modo talmente abile da portarmi ad avere rapporti sessuali con lui con assoluta naturalezza, come se fosse la logica evoluzione del rapporto di confidenza e di amicizia che si erano stabiliti tra noi. Non ha avuto fretta, mi ha accompagnato senza mai forzarmi lungo il percorso che porta dai primi “casuali” sfioramenti e toccamenti fino ai contatti più spregiudicati. Questa è stata la mia prima vera scoperta del sesso. Ricordo che verso la fine dell’anno scolastico la lezione era divenuta ormai solo un pretesto per incontrarsi e infilarsi nel suo letto”.
Il racconto della sua iniziazione sessuale mi stupiva e un po’ mi eccitava. Mi veniva da fargli un sacco di domande; non sapevo da quale cominciare. Alla fine mi limitai ad esprimere la banale conclusione alla quale ero giunto:
“Quindi è questo imprinting che ora ti porta a cercare rapporti omosessuali, come hai fatto con me”.
Scosse la testa con aria paziente.
“No, non è proprio così automatico. Una volta, dopo che per l’ennesima volta mi aveva sodomizzato, domandai al professore se dovevo ormai considerarmi un omosessuale. Mi rispose che non potevo saperlo finché non mi fossi innamorato. Sosteneva che fare sesso nelle condizioni giuste è sempre piacevole e appagante, anche tra maschi o tra femmine, se non si hanno troppi tabù e pregiudizi nella testa. Solo quando c’innamoriamo sul serio il sesso assume un significato del tutto diverso; così se mi fossi innamorato di un uomo avrei scoperto di essere omosessuale, se mi fossi innamorato di una donna avrei scoperto di essere eterosessuale. Oppure mi sarebbe potuto capitare quello che è successo a lui, bisessuale perfetto, che non s’innamora né di donne né di uomini, ma desidera il sesso sia con gli uni che con gli altri. Se li trova attraenti, naturalmente. All’esame di stato fui molto brillante anche in italiano e storia, quindi anche le lezioni erano servite; i miei genitori furono molto contenti che continuassi a mantenere l’amicizia col mio vicino professore. Così abbiamo continuato a vederci ancora per qualche mese, fino alle feste di dicembre, mi pare. Poi all’università ho incontrato Irene e tutto è cambiato, mi sono innamorato pazzamente di lei ed ho finalmente trovato anche la mia autentica identità sessuale”.
“E allora l’imprinting in cosa consiste? Vuoi dire che ti sei sentito spinto verso di me da una specie di richiamo della foresta?”
“Più o meno è così. Vedi, adesso capisco che nonostante le sue belle parole e le sue teorie, il professore mi ha usato, e forse ha abusato di me. Tuttavia non posso impedirmi di avere di quell’esperienza un ricordo tenero e piacevole. Mi evoca un periodo di eccitanti scoperte, di una tardiva uscita da un bozzolo che mi soffocava, di necessarie trasgressioni che fino a quel momento non ero stato nemmeno capace di immaginare; della conquista di un’autonomia. E’ stato un passaggio obbligato per lo sblocco della mia sessualità. Probabilmente se la mia iniziazione fosse avvenuta con una donna ne sarei rimasto ancora più traumatizzato. Lui, in quanto maschio, capiva le paure, le titubanze e le emozioni di un adolescente maschio e poteva gestirle senza mai suscitare in me idee di peccato o sensi di colpa. Non ho mai avuto la sensazione di compiere qualcosa di perverso. Certo, un imprinting ogni tanto torna a galla e si manifesta. Quando mi capita di imbattermi in un quarantenne che in qualche modo mi ricorda il professore scatta quello che tu chiami “il richiamo della foresta”.
Era la prima volta che mi capitava di trovarmi davanti al racconto dello svilupparsi di un desiderio sessuale tra maschi; mi sentivo un po’ confuso dal suo ragionamento, anche se intuivo una sua logica lucidità.
“Ma allora” domandai “vorresti dire che tra noi due l’omosessuale sarei io?”
Sbottò in una risata che gli mandò di traverso l’ultimo boccone di pizza. Era la prima volta che lo vedevo ridere, notai.
“No, no” affermò convinto, quando si riprese. “Al massimo potresti considerarti bisessuale. Penso invece che avesse ragione il professore quando affermava che nelle condizioni giuste il sesso è sempre piacevole e appagante, anche tra maschi, se non si hanno troppi tabù e pregiudizi nella testa. Il sole, il cibo, il vino e poi l’eccitazione hanno rimosso i tuoi tabù; il resto è venuto da sé. E’ la cosa più naturale del mondo, credimi”.
Mi sentii tranquillizzato dalla sua risposta, mi sembrava convincente; ma riflettendo su tutto il suo racconto mi sorgevano delle domande. Walter si era dimostrato molto disponibile a raccontarsi, ma temevo di urtare la sua sensibilità mostrandomi troppo curioso. Tuttavia non riuscii a impedirmi di domandargli:
“E lo senti spesso questo richiamo della foresta?”
Rise, rilassato e divertito.
“Dipende da cosa intendi per spesso. Diciamo che può capitare una o due volte l’anno. Qualche volta nemmeno una. Ma sono episodi che si esauriscono appena tolto lo sfizio. Non lasciano conseguenze.”
“E con Irene? E’ complicato tenerle nascosto questa specie di doppia vita, sia pure episodica?”
“Irene sa tutto, non le tengo nascosto proprio nulla.”
Lo stupore sulla mia faccia doveva avere qualcosa di comico, perché Walter rise ancora più forte di prima.
“Vuoi dire che la tua fidanzata quasi moglie sa che di quando in quando tu vai a scopare con un maschio e non ci trova nulla da ridire? Non è gelosa?”
Mi rendevo conto io stesso che il mio tono era comicamente moralistico, ma lui non ci trovò niente da ridere, anzi si fece molto serio.
“Tra me e Irene non ci sono segreti. Tra noi c’è un’intesa totale e un’integrale accettazione reciproca. E’ gelosissima, ma delle altre donne, non di un uomo. Sa di questo mio impulso, ne conosce la ragione, è consapevole che non toglie nulla al nostro amore e alla solidità del nostro rapporto. Nel pomeriggio, mentre eri fuori in moto l’ho chiamata e le ho raccontato in tutti i dettagli il nostro incontro. Si è molto divertita mentre descrivevo la tua faccia stupita”.
Adesso tutto mi era chiaro e provai una punta d’invidia per quel rapporto con la sua ragazza. Uscimmo dalla pizzeria e passeggiammo sul lungomare chiacchierando come vecchi amici, senza tornare sull’argomento. Accade spesso che le confidenze più intime si rivolgono proprio a degli sconosciuti, e anch’io mi ritrovai a rivelare fatti e episodi del mio passato che non avevo mai confessato a nessuno. Si era creata una strana intimità fra noi, un’intimità che ormai includeva pacificamente anche una complicità sessuale.
Quando tornammo al campeggio vi trovammo un’atmosfera allegra e cameratesca: capannelli di partecipanti al raduno si erano aggregati a bere, chiacchierare, raccontare storielle e barzellette. Un cinquantenne bolognese con barba, capelli e giacca con frange alla Buffalo Bill, con il quale avevo scambiato alcune battute al momento del mio arrivo ci vide e ci invitò a bere con il suo gruppetto. Ci fermammo e passammo due ore davvero divertenti. Al momento di andare a letto promettemmo di aggregarci a loro per il tour del giorno dopo a Ravenna. Arrivati alle nostre tende, al momento di darci la buonanotte c’era una strana esitazione tra noi, continuavamo a dirci banalità in attesa che fosse l’altro a dare per primo il segnale di congedo. Finché Walter non espresse quello che anch’io stavo aspettando:
“Perché non mi ricambi l’ospitalità nella tua tenda?”
Mi sorpresi a rispondere: “mi sembra il modo giusto di chiudere la giornata.”
Senza esitare andò a prendere il suo materassino e lo depositò in tenda vicino al mio. Chiusa dietro di noi la cerniera, il mio imbarazzo prese il sopravvento. Questa volta non potevo inventarmi scuse, ero consapevole e consenziente, non ero preso alla sprovvista. Non avevo nemmeno la giustificazione di essere trascinato dalla libidine, tra le gambe mi sentivo una lumachina. La verità era che, non so se per curiosità o desiderio di sperimentare, VOLEVO ripetere l’esperienza del pomeriggio. Nella penombra della tenda, che non ci nascondeva niente, ci spogliammo guardandoci, con curiosità più che con eccitazione. Nessuno di noi osava prendere l’iniziativa, c’era un’atmosfera strana e pesante, eravamo seduti sui nostri materassini, uno di fronte all’altro completamente nudi. Restammo così per non so quanto tempo, poi Walter allungò il braccio e prese in mano il mio membro, ma fu solo il suo che ebbe un inizio di erezione.
“Ci dobbiamo baciare?” domandai. Mi sentivo una verginella e la cosa m’infastidiva parecchio.
“Come vogliamo. Se ci piace lo facciamo, altrimenti no.”
“Preferisco di no.”
“Anch’io preferisco di no. Con i maschi il sesso mi piace genitale, senza troppe tenerezze.”
Adesso potevo vedere il suo membro eretto, e sotto le sue carezze anche il mio dava segni di risveglio. Mi lasciavo accarezzare, e lui lo faceva lentamente, con studiata sapienza, mentre con l’altra mano mi teneva i testicoli, premendo leggermente con un dito contro il perineo. L’imbarazzo in me svanì abbastanza rapidamente, lasciando il posto a una timida ma crescente eccitazione. Mi piaceva farmi manipolare, lasciare che quel giovane uomo mi donasse piacere, e constatare, osservando il suo membro eretto, che il mio piacere, quella manipolazione, era anche il suo piacere. Seguo il suo esempio, glielo prendo in mano e muovo su e giù, con lentezza, lui risponde con un piccolo gemito, sento che gli diventa, se possibile, ancora più rigido. Cerco di compiere su di lui gli stessi gesti che lui compie su di me, e gli prendo i testicoli. Pur essendo per me tutto così nuovo, le mie azioni e le mie eccitate emozioni mi sembrano naturali, del tutto compatibili con la nostra mascolinità. Walter si allunga sul materassino, il suo volto è a pochi centimetri dal mio pene; so quello che sta per accadere e aspetto. Aspetto per un tempo che mi sembra interminabile, poi la sua lingua mi solletica il glande, che finisce risucchiato nella sua bocca. Mi allungo anch’io sul materassino senza mollare la presa del suo sesso, che adesso è di fronte ai miei occhi, e mi abbandono alle sensazioni che la sua bocca mi regalano. La mano che mi teneva i testicoli scivola più sotto, il suo dito si solletica l’ano spingendo con decisa delicatezza. Mi lascio andare a queste nuove sensazioni e intanto guardo il suo piccolo membro e mi convinco che ormai è giunto il momento di infrangere un altro tabù. Mi allungo quel poco che mi consente di arrivare con le labbra alla punta del suo uccello, ve le appoggio sopra e mi muovo sfiorandola. Sento Walter reagire con un lungo brivido e accentuando il risucchio su di me. Il passo successivo mi risulta più facile: apro le labbra e prendo in bocca il suo glande, lo accarezzo con la lingua e succhio delicatamente. I gemiti e gli ansimi che arrivano alle mie orecchie mi dicono che vado bene. “Sto facendo un sessantanove con un uomo” è l’incredibile rivelazione che faccio a me stesso. Intanto Walter con una falange del suo dito ha forzato l’ingresso del mio ano, mi sento piacevolmente violato. Il suo membro entra tutto nella mia bocca, fino alla radice; ci gioco con la lingua e succhio. Sento il suo respiro farsi più affannoso, l’azione sul mio uccello più concitata. La mia eccitazione è altissima ma desta, sento che sono ancora lontano dall’orgasmo, invece i gemiti di Walter mi fanno capire che è vicino a venire. Non riesco a superare l’ultimo tabù: quando percepisco i primi sussulti lo sfilo dalla mia bocca, che va prendere e succhiare i suoi testicoli, mentre la mia mano gli dà un piacere che si rovescia sul mio collo e sul mio torace. Walter sembra attraversato dalla corrente, lascia andare il mio membro e ricade supino sul materassino.
“Scusami” dico “ma non ce l’ho fatta a farti venire in bocca.”
“Non scusarti” risponde con un filo di voce ansimante “è stato bellissimo, sensazionale. Adesso vorrei che me lo mettessi nel culo. Vuoi?”
Io, la verginella, questa non me l’aspettavo, ma la sua richiesta produce un nuovo flusso di sangue al mio pene, che adesso sento tirare come se volesse spiccare il volo. Walter non aspetta la mia risposta, alza le gambe verso l’alto e si allarga le chiappe per mostrarmi la via. Mi posiziono e vedo che il suo membro nonostante l’abbondante eiaculazione non ha del tutto ammainato. Si bagna di saliva il buco, mi prende in mano il cazzo e se lo appoggia.
“Spingi, spingi” mi esorta ansimante, mentre intanto è lui che spinge contro di me nell’urgenza di farsi impalare. Io spingo con tutta la mia potenza e sento che l’anello di carne cede, mi lascia entrare, infine tiene il mio sesso in una morsa di piacere. Comincio a muovermi dentro di lui con ritmo blando, ma crescente. Tra le nostre pance è stretto il suo membro che lo sfregamento rende più consistente. Glielo prendo in mano quando sento che il mio orgasmo finalmente si sta avvicinando. Lo sto masturbando, di nuovo quasi completamente rigido, nel momento in cui con un rantolo di piacere mi svuoto dentro di lui. E mentre l’ultimo spruzzo di sperma si rovescia nel suo intestino, anche lui sparge sulla sua pancia piccoli fiotti bianchi. Stordito e affannato, mentre il mio membro ancora pulsante si contrae, esco da lui e mi getto sul materassino. Penso per un attimo alla moglie troia del mio collega cornuto con aplomb. Mi viene da considerare che mai lei era stata capace di farmi godere così tanto, nonostante abbia in dotazione una fica e delle tette nient’affatto disprezzabili. E allora, questo significa che sono diventato omosessuale, oppure che lo sono sempre stato e non lo sapevo? No, probabilmente aveva ragione il professore di Walter, il sesso ha meno barriere di quelle che la nostra cultura e le religioni hanno eretto in questi ultimi millenni.
Senza dire una parola Walter si riveste ed esce, io lo seguo. Ci sediamo appoggiati all’albero a fumare una sigaretta. Stiamo bene e non c’è bisogno di parlare. Siamo due uomini che si sono regalati dei momenti di piacere. Basta. Andiamo a fare una doccia notturna, poi una semplice “buonanotte” chiude la nostra giornata.
(segue)
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