A metà degli anni Settanta, nella fase più calda della enorme tensione scatenata dalla diffusione di massa della’AIDS, mi trovai in ospedale a lottare con alcuni ammalati particolarmente restii ad accettare le cure; soprattutto ad alcuni immigrati neri, non si riusciva quasi a far assumere i medicinali secondo il programma terapeutico; uno di essi, Mohamed, un nigeriano di trent’anni immigrato clandestino e costretto al ricovero per essere stato preso in un retata di prostitute, era impossibile tenerlo fermo ed evitare che tentasse in ogni modo e in ogni momento di fare sesso con qualunque persona gli capitasse a tiro, maschio o femmina non faceva differenza, a rischio di contagiare altre persone della sua malattia che risultava di natura particolarmente cattiva e ad uno stadio che ormai lasciava poche speranze.
Per colmo di sfortuna, una mattina capitò al reparto anche Marina, mia moglie, che avevo sposato giovanissimo, tanti anni prima e con la quale avevo trascorso più di venti anni (eravamo ormai ambedue sopra i quaranta, con qualcuno in più per me) e non avevamo avuto molti problemi, finché il lavoro non ci aveva posto di fronte a esigenze particolarmente impegnative; la mia promozione a primario aveva certamente influito a rendermi meno presente, in casa e, forse, a letto con lei; allo stesso tempo, pesava sui rapporti una più assidua frequentazione di lei nell’ufficio dove aveva deciso di lavorare: la scelta l’aveva fatta lei, con molta caparbietà, più per non rimanere a casa a fare la massaia che per i quattro soldi che la pagavano; ma a mano a mano mi ero accorto che le serviva anche da copertura per certe sue ‘trasgressioni’ che diventavano sempre più lunghe e sempre più frequenti a mano a mano che i rapporti si deterioravano per mancanza totale di comunicazione.
Marina era quello che si suol dire una gran bella femmina, con un fisico asciutto e ben tenuto, grazie anche a un regolare esercizio fisico in una palestra dove secondo l’opinione di qualcuno aveva anche una sua personale garconniere con i vari trainer: in parte per disistima verso certe voci e verso chi se ne faceva portatore; in parte perché non mi interessava più di tanto cosa facesse della sua vita e del suo corpo; in parte anche perché aspettavo solo l’occasione per presentarle un conto assai salato, a copertura delle umiliazioni che da un po’ di tempo mi imponeva affermando il suo bisogno di esibizionismo nei modi più volgari possibili: insomma, per diversi motivi non mi ero dato la pena di controllare le varie voci che parlavano di una ninfomane pronta ad accoppiarsi dovunque e con chiunque pur di avere sesso soddisfacente e, spesso, estremo sopratutto in ordine alle dimensioni.
Quando mi fu davanti nel corridoio e mi spiegò che aveva un’oretta di attesa per ritirare delle analisi che aveva fatto nei laboratori, la invitai ad entrare nel mio studio e sedersi; naturalmente, l’idea stessa di sedersi a far niente le dava le convulsioni e si avviò in giro per i corridoi; la misi sull’avviso più volte che in quegli ambienti circolavano malati spesso terminali e che era noioso vedere un’estranea girare, senza considerare che c’era rischio di contagio; com’era prevedibile, la risposta fu che ero tirannico e che volevo anche impedirle persino di camminare libera per un corridoio; mi ritirai nel mio ufficio e, per precauzione, accesi le videocamere per il controllo interno.
Vidi così chiaramente Mohamed che la avvicinava e che le parlava; notai anche il gesto lussurioso con cui si accarezzava il pacco e non potei fare a meno di osservare che lei seguiva con interesse soprattutto quel movimento, evidentemente cercando di valutare la stazza di quella dotazione mascolina che, a vista, sembrava essere di gran lunga superiore ad ogni dotazione umana, almeno di quelle che nella mia carriera professionale avevo avuto modo di vedere; preoccupato che Marina potesse fare qualcosa di irreparabile, uscii nel corridoio e le chiesi di ascoltarmi; mi respinse annoiata, insistetti e sottovoce le spiegai che quel degente era il più pericoloso di tutti, ammalato terminale e fissato con il sesso, mi mandò al diavolo con un gesto della mano; tornai nel mio ufficio e mi misi ‘di guardia’ alle telecamere interne.
Purtroppo, come avevo temuto, in breve Muhamed riuscì a convincerla ad andare in un magazzino semivuoto con letti in disuso e macchinari vari; fui a lungo diviso tra il desiderio di intervenire ad impedire uno scempio, scelta professionalmente anche obbligatoria, e la rabbia contro l’imbecille che calpestava anche i più semplici consigli ergendosi a giudice di tutto; la lentezza a decidere fu fatale; prima che avessi il tempo di pensare, i due si erano già chiusi nel magazzino e lui la stava spogliando: per la prima volta in vita mia vedevo mia moglie tra le braccia di un altro e nella versione più squallida e volgare che avessi mai potuto immaginare; a quel punto, istintivamente feci scattare la registrazione su una chiavetta esterna che avevo in cassetto.
Il nigeriano le aprì rapidamente la camicetta, le slacciò il reggiseno e fece esplodere due seni da infarto: li prese a succhiare con un’enfasi che non avevo mai provato e che forse apparteneva ormai al repertorio di lei che ne godeva vistosamente e rumorosamente; vedevo la sua faccia stravolta in una smorfia di piacere intenso, mentre il nero palpava, succhiava, strizzava, martoriava le mammelle e succhiava i capezzoli, tirandoli fino ad un lunghezza impensabile, di alcuni centimetri; lei si limitava a godere e a gemere con forza; quando lui passò a leccarle la gola e il viso, vidi Marina sciogliersi in gesti di lussuria enorme, alla ricerca perenne del sesso di lui che brancicava da sopra ai pantaloni evidentemente vogliosa di sentirlo in mano e altrove.
Poi fu lei a spogliare lui della camicia e a leccare, mordere, accarezzare, succhiare il petto fino ai capezzoli che mulinò in bocca con la stessa enfasi che aveva usato lui, strappandogli infiniti gemiti di piacere; quindi Muhamed le afferrò i fianchi e spinse in giù la gonna, dopo avere sganciato il bottone di fermo ed aperto la zip; apparve lentamente il corpo statuario di mia moglie, con tutta la pienezza delle anche, delle natiche, del ventre e della parte alta delle cosce; lui seguiva lo spogliarello accarezzando ogni centimetro di pelle e leccando tutti i punti erogeni che sembrava conoscere a menadito, ma forse per altre esperienze.
La rovesciò di schiena sul letto e affondò la faccia tra le cosce tornite; zoomando un poco,riuscii a distinguere la lingua che spazzava la vulva e cercava il clitoride; assistetti alla fellatio sul clitoride che lui fece strappandole gemiti altissimi di piacere; vidi lei spostarlo e spingerlo con forza indietro per abbassargli i pantaloni e far emergere la bestia che aveva tra le gambe, un mostro di almeno venticinque centimetri che lei accolse tra le mani con lussuria ed evidente gioia; diede il via ad una masturbazione gustosissima, accostando progressivamente la testa al manganello che reggeva a due mani: se non lo avessi visto, giammai avrei creduto che potesse ingoiarlo come fece, fino in fondo; poco mancò che mi prendesse un ictus al ricordo delle storie che faceva per succhiare il mio di gran lunga più piccolo.
Volevo quasi spegnere, visto che comunque potevo rifarmi con la ripresa registrata; ma qualcosa di morboso mi spingeva a continuare a guardare, un poco per sorbire fino in fondo l’amaro calice, un poco per fissarmi in mente la perversione di mia moglie, un poco per quel tanto di masochismo che mi aveva fatto fino a quel punto sopportare la sua troiaggine; vidi una bestia inusitata penetrare dolorosamente e lussuriosamente nel ventre di Marina e vidi le spinte animalesche che la belva nigeriana portava al suo corpo, alle quali rispondeva con gutturali suoni di godimento.
Avevo le lacrime agli occhi ed un violento desiderio di vomitare, ma mi imposi la calma e, con qualche esercizio di respirazione, tornai alla normalità; vidi che si ricomponevano perché lei aveva ricordato che doveva andare a prendere le analisi; li incrociai nel corridoio.
“Muhamed, lo sapevi che lei è mia moglie?”
“Allah mi perdoni, non lo sapevo!”
“Allah forse ti perdonerà; io no.”
“Che cosa vorresti dire?”
“Stai attenta che lo sperma ti cola per terra dalla vulva e stai lasciando una scia. Hai copulato bene?”
“Ma che ti inventi? Io non ho copulato!”
Guardai il nigeriano e lui ormai era uno zombie; e lo sapeva.
“Il tuo nuovo amante pagherà per te; non gli resta che una settimana, adesso.”
“Doc, ti prego, non mi abbandonare; io non sapevo … “
“Non hai rispettato gli ordini; hai fatto sesso pur sapendo che eri a rischio; adesso te ne vai tra i terminali e ci resti fino alla fine.”
“Ma che stai dicendo?”
“Te l’avevo detto, questo era il più pericoloso di tutti e tu ha fatto sesso proprio con lui; ora sei una minaccia per la società; ridammi le chiavi di casa!”
“E io dove vado?”
“C’è il miniappartamento che dovevamo vendere; da oggi è tua residenza, tuo domicilio e tua garconniere: io a casa mia ci porto qualcuno che abbia più dignità.”
“La vedremo!”
“Attenta, sei stata registrata da me personalmente, se vuoi ti faccio rivedere in video!”
“Ficcatelo dove dico io il tuo video. Sei cornuto e questo basta!”
Muhamed morì davvero nel giro di una settimana, ma senza colpa di nessuno: era già condannato; feci avvertire Marina attraverso il medico di base, ma non se ne diede per inteso; sapevo per certo che stava spargendo in giro il virus, ma non potevo farci niente finché non fossero state conclamate le conseguenze; passarono solo pochi mesi prima che gli effetti arrivassero fino a noi; due suoi colleghi, già provati da altre malattie, furono ricoverati di urgenza: ci voleva poco per capire che avevano fatto sesso con Marina; furono ricoverati con le mogli e interrogati sulle loro vicende sessuali: solo con molti sforzi il medico che se ne occupava riuscì a fargli confessare che avevano avuto rapporti con mia moglie; il collega fu molto discreto ed io dovetti dire però che avevo quel timore, dal momento che avevo verificato che mia moglie mi aveva cornificato con un maschio contagiato e che avrebbe esteso il contagio, ma non pensavo a tanta gente.
“Dottore, mi perdoni la franchezza, ma le consiglio di prepararsi a notizie assai peggiori … “
Eravamo tutti increduli, mentre il collega di lei spiegava che tutti gli individui di sesso maschile dell’azienda copulavano con la signora, dai dirigenti ai custodi, e che presto o tardi sarebbero venuti tutti a reparto; mi sentivo profondamente lacerato: da una parte, vedevo la mia vendetta assumere toni da apocalisse, parallelamente alla volgarità, all’immoralità, alla mancanza di umanità di mia moglie che si rivelava sempre più marcia; dall’altro lato, mi rimordeva la coscienza professionale di non avere obbligato una persona che io consideravo ad altissimo rischio a farsi ricoverare per essere curata: forse, inconsciamente, speravo sempre di essermi sbagliato.
Quando però l’autorità giudiziaria cercò di imporre a mia moglie il ricovero coatto, oppose tante e tali di quelle difficoltà che furono necessari alcuni mesi per convincerla a farsi internare, quando ormai le tracce della malattia la stavano già deturpando; intanto, gran parte dei suoi colleghi di lavoro era stata ricoverata per i sintomi; e fu un lavoro lungo, delicato e difficile convincerla ad indicare con quanti altri maschi, fuori della sfera del suo mondo di lavoro, si fosse accoppiata anche occasionalmente.
La verifica portò ad un ritratto di Marina ninfomane scatenata e incontenibile che aveva copulato in tutti i ristoranti e i bar dove si era recata: le bastava un cenno ad un avventore o ad un cameriere, per ritrovarsi in un bagno con pantalone e mutande calati a prendere una mazza in vagina da dietro, per una classica sveltina; tutti i proprietari di alberghi e pensioni dove si appartava con l’amante del momento avevano poi il ‘privilegio’ di copularci senza sapere che stavano facendosi contagiare; in breve, nel giro di qualche mese, almeno una quarantina di persone era dovuta ricorrere all’ospedale per tentare di arginare un contagio assai pericoloso che aveva già portato alla morte il ‘paziente zero’ quello che aveva contagiato Marina; non avevo assolutamente nessun desiderio di scambiare con lei neppure un saluto di cortesia, ma non potei sottrarmi, quando mi fece sapere con insistenza da un infermiere che aveva urgente bisogno di parlarmi.
Mi dicono che hai bisogno di parlarmi: come mai adesso?”
“Mi hai già definitivamente cancellato dalla tua vita, dai tuoi ricordi, da tutto?”
“Per la verità, sei stata tu che ti sei brutalmente cancellata sei mesi fa, nel corridoio qui a fianco, quando hai respinto ogni mio tentativo di impedirti di far degenerare il contagio che avevi contratto con una copula assurda, avventata, contraria ad ogni suggerimento medico, ostinata, inqualificabile; sapevi che avevo il video della copula e negavi spudoratamente; perdevi sperma dalla vagina e insistevi a dire che non avevi fatto sesso; ti volevo soccorrere perché sapevo che avevi avuto rapporti con uno zombie e tu me lo hai impedito. Chi è stato a cancellare? Chi è stato ad essere cancellato? Questo per non parlare dei precedenti: da quanto sei diventata troia? Hai un solo motivo valido per spiegare la tua scelta?”
“Lo stai testimoniando adesso, il motivo: razionalità, lucidità, pulizia, senso del dovere, obblighi, limiti, leggi. Perché? Per vivere come? Come in un ospedale? Come in una prigione? E i nostri sogni di libertà? E i nostri progetti di follie? Mi sono ribellata ed ho scelto la strada, forse non la migliore; ma l’ho scelta e l’ho percorsa.”
“Perfetto! La tua strada è finita: la durata della tua sopravvivenza andrà da qualche settimana a qualche mese, forse a qualche anno, sempre e solo chiusa in una stanza d’ospedale, legata a macchine che ti tengono in vita artificiale; prima che tu azzardi un’altra imbecillità, non chiedere a nessuno di aiutarti a morire: non lo facciamo mai, per nessuno; anche se per te sarà solo una continua sofferenza, per noi il dovere è uno solo: tenerti in vita finché sarà possibile; e non potrai fare l’occhiolino a nessuno per piegarlo alla tua libidine; faremo di tutto per farti resistere il più a lungo. Non tirare fuori l’accanimento terapeutico, non lo farà neanche un avvocato che ti rappresenti, se qualcuno c’è che voglia patrocinarti; tu sarai curata e vivrai, anche se ora vorresti morire. Intanto io mi centellinerò le copule che tu hai sperperato nei modi più volgari e biechi possibili: le distribuirò a tante o forse ad una sola, se troverò l’amore che avevo per te venticinque anni fa; e le spenderò oculatamente, ordinatamente, come un essere razionale e lucido, non come l’imbecille che si gonfia e muore d’indigestione. Io non ho niente da dirti; solo le prescrizioni sanitarie di legge. Tu, se hai da dire, parla pure: ti ascolto.”
“Forse dovrei rinunciare anche a parlare, dopo che ti ho sentito emettere diagnosi e terapia, giudizio e condanna: sei medico e becchino, giudice e boia; ed hai ragione su tutti i fronti, come sempre d’altronde; mi sono fatta contagiare contro le tue premure, sono malata terminale e mi resta poco da vivere; ho sperperato la mia vita, non sono degna di viverla ancora ma voi non mi aiuterete mai a morire perché il vostro dovere è farmi vivere il più a lungo possibile. Ti cambia qualcosa se confesso che sono pentita, che vedo con terrore questo poco tempo che mi resta e che servirà solo a piangere sui miei errori? Cosa avrebbe detto, per consolarmi, il mio amore, quando ci sforzavamo di trovare un posto nel mondo? Troverebbe ancora una frase, un’idea, un gesto per farmi sentire che mi sta vicino e che non mi lascia affrontare da sola i mostri che ci sono là fuori? Riesci ancora a trovare un piccolo barlume di quella umanità che ti ha costruito come uomo, come medico e come benefattore? Riesci ad usarlo per avere pietà di chi hai amato più di te stesso per tanti anni?”
“Se ancora coltivassi l’illusione che dentro di te c’è spazio per fare entrare un briciolo di buonsenso; se sperassi che sotto la cenere del tuo spirito ci fosse ancora un barlume di quell’amore che professavi con tanto entusiasmo; se riuscissi a credere che solo la fanciullaggine ed un equivoco senso della libertà hanno mosso le tue scelte e che, lavato lo sperma delle tue infinite copule, c’è ancora un corpo da amare; se io avessi ancora la forza che mi davano questi sogni, queste illusioni, questi progetti, io cercherei dentro di te quell’entusiasmo degli ormoni che mi faceva desiderare il tuo corpo che oggi appare distrutto dalla tua imbecillità, prima che dall’Aids; se avessi ancora quella forza, oggi forse potrei ancora chiederti di lasciarti baciare con amore, castamente, solo per sentire che mi sei vicina, non che sei ottusamente mia ma che ti sento come una parte di me che pensa con me, sente con me, vive e soffre con me; se riuscissi a credere che c’è in te ancora un poco di quell’amore che ci scambiavamo, forse riuscirei a scavare nei rifiuti di cui è colma la fogna del tuo corpo per cercare quel gioiello da salvare e da amare.”
“Sei proprio convinto che non ci sia più niente?”
“Hai chiesto all’inizio a che servisse il rigore e dove fossero finiti i nostri sogni. Torniamo all’inizio perché il giro si è concluso; ma, come in una spirale, il livello si è alzato. A che ti è servito fare i conti della serva per stabilire quanta e quale libertà avevi, quali e quante erano le sbarre della tua prigione? Hai visto davvero delle sbarre? O forse hai sentito il vuoto perché tutto non andava come nella casetta di marzapane o nella buca del Bianconiglio? Io sono certo che te ne fregavi delle regole e della pulizia: pestavi i piedi perché volevi i tuoi giocattoli e rifiutavi la vita vera. Quanto eri libera mentre ti piegavano su un tavolo e ti sbattevano in vagina, da dietro, senza neanche guardarti in faccia, venti centimetri di sesso? Credi davvero che fossi tu a possederli o erano loro che ti umiliavano a piacimento? Eri libera quando ti portavano in un angolo buio del parcheggio e ti costringevano a soffocarti per farli godere in bocca? Quando, in un rapporto sessuale, ti sei sentita libera? Quando hai goduto intensamente perché non eri tiranneggiata da un maschio?”
“Solo in questo ti sbagli; hai fatto la corretta diagnosi di un dottore, come sempre; ma ti sbagli sul piacere mentale: quello lo provavo, non sai con quanta intensità, nel momento stesso che mi facevo schiava del sesso: piuttosto che accettare il tuo tradimento dei miei sogni, meglio essere trattata come uno zerbino da tanti! E’ imbecille? E’ disumano? E’ incomprensibile? Ecco! E’ giusto proprio perché non è comprensibile con i tuoi parametri, proprio perché non appartiene al verificabile, al controllabile, al consentito. E’ sogno, è follia, è libertà.”
“Complimenti: libertinaggio come libertà, imbecillità come sogno. Bene: io prolungherò la tua vita al di là delle speranze di chiunque per consentirti di vivere per il maggior numero di anni possibile le conseguenze della tua imbecillità; ma parlo per esperienza e stai pur certa che ogni giorno dei prossimi anni ti troverai a pregare il tuo dio di farti morire presto per non dover sopportare un’esistenza da menomata, da incapace, da schiava di tutti. Io intanto mi sarò trovato una compagna che meriti amore e ci farò anche quel figlio che non hai mai voluto. Addio, perduto amore mio.”
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