L’estate di quell’anno si caratterizzò per il tormentone proposto da Luciana, il bisogno di ‘leggerezza’ nella vita per non rendere tutto difficile.
In realtà, più che proporre un principio, Luciana volle semplicemente contestare me e quelli come me che, secondo lei, affrontavano la vita sempre alla luce dell’analisi esasperata e minuziosa (strutturalistica, in sostanza), caricando le cose di valori storici e culturali, soprattutto ricorrendo spesso alla dietrologia per giustificare, motivare, spiegare cose che assai più semplicemente ‘erano’.
Non valeva a niente dimostrare che i sinonimi di ‘leggerezza’ erano molto spesso e comunque ‘superficialità’, ‘improvvisazione’, ‘irriflessività’, ‘disimpegno’: per lei la colpa più grave, nella nostra vita, era stata dare sempre e troppe motivazioni a cose che, con l’istinto, l’intuito, la volontà si possono ben più facilmente spiegare.
La cosa più importante (e più grave) era che il discorso era fatto a una persona, io Enzo, che aveva si e no cinque anni più di lei, anche se in una certa fase di età gli anni pesano molto di più e, alla fine, cinque anni di più mi collocavano pari pari tra i cavernicoli, mentre lei si sentiva proiettata già nel futuro.
Spendemmo intere serate sul dibattito; ma, coerentemente alle sue convinzioni, alla fine Luciana ci piantava in asso e se ne andava nel bar, nel pub o nella discoteca preferita (a seconda dell’ora) e si preoccupava di tutto quello che impegnava, a quel tempo, i giovani della sua generazione (i selfie, la moda, la fashion, per primi), fino a concludere quasi sempre nella ‘scappatella’ in bagno per un po’ di sesso veloce col primo che la stuzzicava.
Proprio su questo tema si era avviato il dibattito e si continuava a discutere.
Per Luciana, una ‘sveltina’ nei bagni di un locale qualsiasi, era il modello prototipo di ‘leggerezza’: una pratica, che ‘una lavata e un’asciugata, torna nuova’ non era da considerare colpa perché, se valutata col metro della ‘leggerezza’, era soltanto sesso veloce e da dimenticare subito, non impegnava sentimenti o passioni; vista nella logica della leggerezza della vita non aveva un peso diverso da un aperitivo al bar, da una gita con gli amici, insomma da qualunque cosa desse gioia sul momento e non lasciasse nessuna traccia.
Mentre invece, se giudicato da noi, diventava tradimento, corna, rottura, mancanza di fiducia e quanto di peggio si può immaginare in un rapporto tra persone.
Benché avessi sfruttato al massimo,a mio vantaggio, questo tipo di comportamento, comunque non riuscivo a mandare giù un atteggiamento tanto disinvolto: in pratica, avevo fatto sesso con quasi tutte le ragazze della cerchia di Luciana, quelle cioè per le quali la sveltina nel bagno era equiparabile all’aperitivo; e forse stavo aspettando l’occasione per trovarmi a farlo con Luciana proprio; eppure, sia nei confronti delle sue amiche, sia nei confronti di lei, non riuscivo a liberarmi dalla ‘pesantezza’ (per dirla coi suoi parametri) di un certo senso di colpa per aver approfittato della loro buona fede.
Con Luciana non volevo approfittare della serata in discoteca per una sveltina nel bagno: checché lei ne pensasse, avevo sempre desiderato per lo meno passeggiare un poco con lei, parlare anche di stupidaggini (perché no, litigare, anche, e polemizzare ‘con leggerezza’): poi, se proprio ci scappava, fare anche un po’ di sano sesso, che io avrei continuato a chiamare amore.
Ci provai più volte a portarmela via dai ‘gironi del divertimento’ in cui si esibiva; e alla fine riuscii a proporre e conquistare una passeggiata sulla spiaggia, io e lei da soli, senza molte polemiche, a raccontarci solo i nostri sogni, le speranze e le prospettive.
Naturalmente, la sua logica della ‘leggerezza’ proibiva di fare grandi costruzioni: a metà del percorso universitario, non accettava di programmare una vita futura, troppo ‘pesante’ e predeterminata; ma le sarebbe piaciuto poter lavorare appena laureata, se non, addirittura, riuscire a lavorare anche prima, mentre ancora studiava, per acquistare autonomia e libertà d’azione.
I suoi non erano molto d’accordo e, disponendo di mezzi, le avevano già acquistato un miniappartamento in città dove lei viveva mentre frequentava l’Università e le garantivano un assegno mensile utile a sopravvivere, anche perché, oggettivamente, il suo tenore di vita era tutt’altro che dispendioso e le consentiva di farcela.
Chiederle maggiore puntualità sulle prospettive, avrebbe significato litigarci, ed io non avevo nessuna intenzione di polemizzare ancora con una meravigliosa ragazza di cui ero già, quasi inavvertitamente, innamorato.
Per la mia parte, le dissi che anche a giudicare con la mia ‘pesantezza analitica’ potevo solo dire che ero soddisfatto del mio percorso che mi aveva condotto a gestire una vasta attività commerciale per la quale mi permettevo un tenore di vita medio - borghese, con casa in centro e diverse possibilità di vita comoda; nelle mie prospettive mettevo senza dubbio una compagna, un figlio e tanta serenità.
Sull’ipotesi della compagna, naturalmente, si scatenò una mezza guerra, visto che Luciana aveva come bersagli preferiti, accanto alla pesantezza ed alla dietrologia, decisamente il becero maschilismo che lei, nella sua ‘leggerezza’, leggeva in ogni scelta che non vedesse la donna protagonista e vincente: per questo, l’idea stessa della ‘compagna’ finiva per puzzarle di ‘schiavismo’; per stemperare l’atmosfera, le abbracciai le spalle e me la strinsi al petto: con mia grande meraviglia, non mi mandò al diavolo; ed io mantenni l’abbraccio sulla spalla per un bel tratto, fino a che non decisi di fermarmi, girarla di fronte a me e baciarla con estrema passione.
Luciana mi sbalordì ancora una volta perché la sua lingua scattò all’improvviso e mi premette contro le labbra: le aprii immediatamente e la accolsi con evidente amore nella mia bocca; per qualche minuto (o per qualche ora?) ci mulinammo in bocca le lingue cercando di leccarci e carezzarci l’interno fino alla gola; intanto, i suoi seni mi bucavano il petto, tanto erano duri e puntuti, e il suo pube si scontrava con il mio e si strusciava alla ricerca di un contatto che portasse al piacere di ‘sentirci’ fisicamente: io mi trovai a sfiorare il godimento assoluto.
Riprendemmo a passeggiare, ma stavolta ci guidava il bisogno di amore, di fisicità, di gioia di vita: ogni tre passi, ci fermavamo a baciarci ed ogni volta la pressione degli inguini era più accentuata e più apertamente spinta dal desiderio fisico, sessuale.
Quando raggiungemmo l’ultimo pattino arenato, ci sedemmo: dal primo bacio, non eravamo più riusciti ad articolare una frase; e un silenzio carico di passione continuò ad avvolgerci, mentre riprendevo a baciarla con enorme goduria e spostavo la bocca, ora, su tutto il corpo: prima sul viso che percorsi intero nel profilo e nel volto; poi sulla gola che lambii interamente e percorsi con la lingua; infine sul seno, che scoprivo a mano a mano abbassando il vestitino leggero che non copriva quasi niente ed offriva tutto ai miei baci.
C’era una stuoia, sul pattino; Luciana la prese e la stese sulla sabbia, a fianco all’imbarcazione; la feci delicatamente distendere e mi stesi accanto a lei; mi portò lei sul suo corpo, imponendomi, senza parole, di salire su di lei e di sistemare il mio sesso ritto come un obelisco tra le sue cosce.
Ero molto titubante, di fronte alla prospettiva di fare l’amore, di sera, sulla spiaggia, con una donna meravigliosa ma imprevedibile, su una stuoia di rafia, accanto ad un pattino arenato.
Forse fu proprio l’idea di ‘leggerezza’ a decidere: Luciana mi strinse con tutto il corpo, mi baciò fino a farmi vedere il firmamento negli occhi chiusi e sentire le farfalle nello stomaco; abbassai la mani, tirai fuori il sesso dal pantaloncino, senza neppure sfilarmelo, e lo appoggiai alla sua giovane vulva; spostai il filo del perizoma che non copriva niente, passai un dito nella fessura della vulva e spinsi il bacino.
Luciana emise un piccolo urlo, quando la verga penetrò in vagina; ed io pensai ad un segnale di piacere; mi mossi un poco dentro di lei: non ebbi bisogno di cavalcarla a lungo, tanto era l’amore che mi premeva dentro; ebbi un orgasmo meraviglioso e tale dovette essere anche per lei, visti i gemiti che lo accompagnarono e il languore con cui si strinse a me e mi baciò delicatamente.
Quando mi staccai e mi sedetti a fianco a lei, scoprii che il mio pantaloncino era macchiato di sangue; restai sbalordito e spaventato.
“Luciana … ma tu … eri … eri ancora vergine?”
“Si; perché?”
“Ma io credevo che con tutti quei discorsi …”
“Senti, Enzo, non riesci proprio a entrare in una certa dinamica. Il SESSO è leggero, quello che si fa nei bagni delle discoteche, quello che si lava e sparisce. Noi però abbiamo fatto l’AMORE. Io ci sarei stata con te solo se mi facevi fare tanto amore. E l’amore non è leggero: impegna valori, progetti, vita. Si può vivere con leggerezza, però: hai visto come è stato semplice, naturale, bello, fare l’amore? Noi lo volevamo, tutti e due; l’abbiamo costruito, l’abbiamo cercato e l’abbiamo fatto. Abbiamo fatto l’amore per la prima volta. E’ la cosa più pesante della vita; ma l’abbiamo fatta con dolcezza, con serenità, con leggerezza.”
“E ora?”
“Ora, niente; tu continui ad essere l’Enzo che sei, io la Luciana che sono sempre stata. Ti prego di non tirarmi fuori il pistolotto dell’essere tua, dell’essere mio, della fedeltà e tutte le altre panzane. Guarda che ‘l’utero è mio e lo gestisco io’ non l’abbiamo coniato noi, come slogan; viene da lontano, ma noi ci crediamo.”
“Questo significa che ora farai a modo tuo e io non avrò peso nella nostra vita perché non ci sarà una vita nostra ma una vita tua ed una vita mia?”
“Enzo, io ho fatto l’amore con te perché ti amo; e spero che tu abbia fatto l’amore con me perché mi ami. Se è così, allora ti deve bastare sapere che il sesso è bello quando si ferma ai limiti della vagina; lì dentro entra solo l’amore. Fino a quando non troverò un uomo da amare almeno quanto amo te, lì dentro ci entrerai solo tu che sei il mio amore; per il resto, non ti aspettare sconti; mi piace troppo vivere.”
Incontrovertibile; inoppugnabile; prendere o lasciare, senza scampo.
Non volevo scampo; mi stava bene essere il suo amore e amarla come l’amavo; effettivamente, se anche si fosse andata a divertire, non c’era motivo per prendersela per un aperitivo (o una sveltina) in più: in effetti, anche io non avrei rinunciato alle ‘mie’ sveltine e non volevo certo renderne conto; ma forse qualche altro chiarimento ci sarebbe voluto, in altro momento: per quella sera decidemmo di fare ancora l’amore e di rientrare.
Il giorno seguente, Luciana andò al consultorio che c’era in pese e si fece prescrivere la pillola che cominciò ad assumere regolarmente e questo le consentì di fare l’amore in assoluta libertà, quasi certamente alle sue condizioni che imponevano la esclusività della vagina per me.
L’estate passò anche troppo in fretta, a quel punto; non perdemmo occasione di fare l’amore, sempre con grande intensità, dovunque e comunque se ne presentasse l’occasione, ma soprattutto senza pesare troppo attentamente tutto quanto avveniva tra un incontro e l’altro; come aveva preannunciato, Luciana non smise di frequentare i suoi circuiti e di abbandonarsi volentieri ad ‘aperitivi’ che trovava sempre eccitanti; allo stesso modo, intrecciai storielle varie e differenti, facendo leva sul fatto che, al contrario di Luciana, tutte le altre ragazze, comprese quelle del suo ‘giro’, ancora si muovevano nella logica di ‘accalappiare un buon partito’, quando se ne intravedesse la possibilità.
Ed io ero un ‘buon partito’: forse ero il meglio disponibile su quella piazza, in quel momento.
Rientrati in città, la nostra storia si sviluppò su un canovaccio assai simile, dal momento che il miniappartamento dove viveva lei non era distante dal mio appartamento in centro, conoscevamo bene le reciproche abitudini e finimmo per frequentare gli stessi spazi dove ci incontravamo quasi tutti giorni e molte volte, alla fine di una serata più o meno pazza, finivamo a casa sua per una notte d’amore: come concordato, quello che avveniva ‘prima’ e ‘dopo’ rimaneva nella privacy personale di ciascuno.
In fondo, non mi dispiaceva la bella storia d’amore e di sesso con una splendida ragazza, a portata di mano, sempre disponibile e che non chiedeva niente altro che sentirsi ed essere amata quando le veniva voglia; qualche sprazzo di desiderio acuto per un rapporto più stabile ed impegnativo, lo soffocavo facilmente negli entusiasmi della giovane età e nelle frequenti occasioni di ‘aperitivo’ che coglievo senza esitazione dovunque, comunque e quandunque si presentassero.
Luciana si laureò nei tempi, a ventitré anni, due dopo che ci eravamo ‘incontrati’; e abbastanza rapidamente trovò un lavoro non molto ben retribuito, ma capace almeno di darle il senso di essere autosufficiente, anche se doveva ricorrere spesso al sostegno dei genitori; inutile dire che, benché fossi chiaramente molto agiato, non avrebbe accettato da me nessun aiuto, neanche il più banale, per non sentirsi vincolata ad un ‘maschio’, specialmente se ‘alfa’ come io ero nella sua interpretazione.
A ventotto anni suonati, cominciavo a meditare seriamente sulla necessità di ‘dare un senso’ alla mia vita e di scegliere un rapporto che si configurasse assai simile ad una famiglia, possibilmente con un figlio che desse un’idea di durata eterna anche al lavoro che svolgevo con grande successo e che mi aveva portato abbastanza in alto nella scala sociale.
Non ne accennai neppure a Luciana, cosciente che certi discorsi per lei si tramutavano immediatamente in tentativi di prigione, schiavitù, ricatto biologico e amenità simili: ero tentato ormai di dare un taglio alla nostra storia e di cercarmi la classica ‘brava ragazza’ per andarci a convivere e farci un figlio; dentro di me, l’idea che fosse proprio Luciana era senz’altro vincente: ma bastava ascoltarla un attimo e si cancellava da sola.
Poi … il fulmine a ciel sereno.
“Sono incinta …”
Me lo disse semplicemente, con la ‘leggerezza’ che caratterizzava i suoi comportamenti e i suoi discorsi, una sera che avevamo appena fatto l’amore a casa sua.
Non osai dire una parola per non far scattare la sua solita violenza; lasciai che fosse lei a prendere l’iniziativa.
“… il figlio è tuo; lo so per certo e lo sai pure tu … “
“Quindi, mi consentirai di riconoscerlo, quando nascerà … “
“Vedremo!”
Le sue risposte ambigue mi imbarazzavano enormemente.
Certo, la rivelazione sconvolgeva tutti i miei progetti: da un lato, avrei voluto urlare al cielo la mia gioia di avere un figlio da lei, che comunque amavo più di ogni cosa al mondo; dall’altro, mi terrorizzava l’idea, anzi la certezza, che avrebbe deciso che il figlio era suo e che non avrebbe permesso a nessuno di entrare nel suo mondo.
Così fu; immediatamente dopo la rivelazione, mi trattò ancora con più distacco del solito e la sentii raffreddarsi nei miei confronti; non potevo fare assolutamente niente e lasciai che si cuocesse nel suo stesso brodo.
Fino a che, cinque o sei mesi più tardi, non fui svegliato una notte dallo scampanellio ininterrotto alla porta: con estrema preoccupazione andai ad aprire e mi trovai davanti un carabiniere che mi comunicò che all’ospedale una signorina Luciana … aveva indicato me come persona da avvertire che era stata ricoverata d’urgenza per una minaccia di aborto; ringraziai, indossai qualche cosa alla meno peggio e dieci minuti dopo giravo per l’ospedale alla ricerca di lei.
Mi trovai di fronte ad una dottoressa molto garbata che mi spiegò che la minaccia era risultata assai meno grave che al ricovero, ma che la signora (‘signorina’ la corressi; mi guardò meravigliata) avrebbe dovuto riguardarsi, al punto in cui era arrivata la gestazione, e avrebbe dovuto fare vita meno attiva, se non voleva rischiare per se e per il nascituro; le dissi che, purtroppo, non avevo poteri per imporre a Luciana un qualsiasi stile di vita.
“Ma lei è il padre?”
“Non so; Luciana dice di si, ma non vuole neppure fidanzarsi con me che la sposerei anche qui, adesso; è troppo orgogliosa e ‘femminista’ per accettare qualsiasi compromesso; mi ha detto che il bambino è mio, ma non ha smesso certi comportamenti libertini. A me piacerebbe avere la certezza e, se necessario, cercare di suggerire qualche regola. Ma, allo stato, mancando anche quella certezza, ho le mani legate e devo solo sperare che Luciana rinsavisca e non crei altri problemi.”
Mi impose di scoprirmi un braccio e mi fece un prelievo di sangue; chiamò un infermiere e gli ordinò di fare effettuare subito le analisi necessarie per stabilire la condizione ottimale dei genitori, per evitare al nascituro pericolose incognite; ma soprattutto, di passare all’esame del DNA per accertare che effettivamente i genitori fossero quelli.
Mi piacque l’escamotage adottato per ‘aggirare’ le leggi sulla privacy e consentirmi quella certezza che, nella mia misera concezione piccolo-borghese, aveva un senso molto grave; mi avvertì che, quando fossi tornato per ritirare gli esiti del ricovero al pronto soccorso, mi avrebbe dato anche i risultati di quelle analisi; mi accompagnò al letto dove Luciana giaceva, pallida come un cencio; davanti a lei, ripeté le sue recriminazioni per il comportamento troppo disinvolto di una donna in procinto di partorire e le raccomandò di interrompere l’attività lavorativa (interruzione prevista a norma di legge, ma a cui Luciana aveva rinunciato per essere ‘superiore’ alle regole) e di non vivere da sola perché se fosse capitato un incidente simile, c’era il rischio di non arrivare in tempo all’ospedale e di mettere in pericolo la vita del nascituro, con gravi conseguenze anche legali per ‘morte procurata’.
Finalmente Luciana sembrò recepire con attenzione le indicazioni e, quando proposi che venisse a stare da me almeno fino a parto, accettò con molte riserve di varia natura.
Paradossalmente, la prima cosa che chiese, quando fummo a casa, fu di farle fare l’amore con il nostro antico entusiasmo, perché per troppo tempo ne aveva fatto a meno ed ora, anche di fronte al pericolo corso, sentiva il bisogno di rinnovare il patto d’amore che ci univa.
Sapevo che non era affatto pericoloso fare l’amore anche se era ormai al sesto mese di gravidanza ed era alquanto provata dalla fatica e dall’episodio recente; e non mi sottrassi, ma cercai di essere il più delicato possibile e di muovermi come in un negozio di cristalli pregiati: facemmo l’amore a lungo, dolcemente, ritrovando intatta la passione che ci aveva tenuto insieme per ormai tre anni.
Mentre godevo dentro di lei, scaricando nell’orgasmo mesi di pene, di attese, di dubbi, le chiesi se volesse venire a vivere con me in maniera definitiva; ancora una volta mi rispose che la sua libertà non era a disposizione di nessuno, né per amore né in cambio di un impero; aspettai che esplodesse il suo orgasmo, la accarezzai sul viso e andai a dormire nella stanza degli ospiti.
Qualche giorno dopo, all’ospedale mi consegnarono il referto del ricovero e un documento che certificava che il nascituro era figlio mio e di Luciana; lo misi nel portafogli e lo tenni come una reliquia a futura memoria.
Passarono anche gli ultimi tre mesi della gestazione e, fortunatamente, Luciana sembrò adeguarsi, almeno sufficientemente, agli obblighi che la nuova condizione le imponeva; una sola volta espresse il desiderio di vedere almeno per un attimo gli amici del bar; l’accompagnai malvolentieri, timoroso che si lanciasse in qualche strana avventura a rischio per il bambino.
Scesa dall’auto, si avviò verso il bar ostentando il pancione che la obbligava a muoversi a disagio e in maniera quasi clownesca: immediatamente, scattò la derisione degli imbecilli che ne accompagnarono i movimenti con fischi, musichette e versi strani: la vidi vacillare e fermarsi timorosa; uscii dall’auto inferocita, la presi sottobraccio e l’accompagnai decisa al bancone del locale, del quale ero proprietario al 60 % ma Luciana nemmeno lo immaginava: non ebbe bisogno di fare niente e i camerieri solleciti la sorressero e le servirono il drink abituale, che conoscevano bene.
“Io vado; quando torno a riprenderti?”
“No; resta, non andartene, stammi vicino … per favore.”
Mi sedetti accanto;notammo ambedue che dei tipi ai tavolini ridacchiavano e facevano il segno delle corna; Luciana era quasi intimorita.
“Perché sono così stupidi e cattivi?”
“Loro sono normali, purtroppo; siamo noi che ci mettiamo in una posizione strana, per la gente normale.”
Dopo un breve, ma interminabile, silenzio, disse semplicemente.
“Andiamo; è stato un errore venire qui in queste condizioni.”
Arrivati a casa, mi chiese immediatamente di fare l’amore; non ho mai saputo dirle di no; meno che mai quando mi chiedeva di fare l’amore.
Lo facemmo ancora una decina di volte, in quei tre mesi; ed ogni volta fu come scoprire il nostro amore, il nostro desiderio di stare insieme e di fonderci in uno; ma nemmeno le chiesi se volesse stare con me per sempre: sapevo che avrebbe rifiutato.
Allo scadere dei nove mesi, puntualissimo, nacque Nicola; ma Luciana volle attribuirgli il suo cognome e non mi fece comparire in nessuna delle carte che lo riguardavano; appena rimessasi dal parto, decise di andarsene col bambino nel suo miniappartamento e rifiutò categoricamente anche la mia ospitalità, come coabitante, senza nessun impegno di convivenza o di familiarità qualsiasi.
Me ne tornai casa col cuore che sanguinava, deciso a tentare di cancellarla dal mio cuore e dalla mia mente, insieme al figlio che lei diceva mio ma che le carte indicavano come solo ‘suo’.
Il capitolo ‘Luciana’ era chiuso, per me; e l’incartamento era sepolto tra i ricordi fastidiosi: resisteva, quella si, un’angoscia profonda per il figlio che avevo intravisto e perduto; ma anche lui finiva per confondersi nelle nebbie di un passato assurdo e terribile; la sola speranza, l’unico desiderio era dimenticare e sperare di incontrare una ‘brava ragazza’ al più presto, riprendere insomma da dove, tre mesi prima, ero stato interrotto.
Dopo un paio di mesi, con alcune avventurette con ragazze ‘leggere’ e disponibili, con serate intere al bar a imbottirmi di alcool e rabbia, un pomeriggio venni accostato, proprio al bar, un tempo abituale per Luciana, da una giovane donna elegante e ben messa che mi chiese se ero io l’uomo di Luciana.
“Mi piacerebbe, ma lei non vuole, purtroppo per me.”
“Si, si, conosco la storia; ne parlano tutti. Ma quello che volevo dirti è che lei non sta bene: la sentono tutti piangere e lamentarsi tutto il giorno, a volte inveire contro suo figlio e contro il mondo perché è imprigionata dall’allattamento. Ho paura che si possa far male o che possa fare male al bambino che vede come causa del suo fallimento. Scusa se te l’ho detto; ma pensavo che forse puoi fare qualcosa.”
La ringraziai, chiamai il mio avvocato e gli chiesi di raggiungermi immediatamente al bar; ero un cliente troppo prezioso, per accampare scuse e venne in un attimo; gli illustrai la situazione; mi chiese del documento stilato al Pronto Soccorso: sapeva che lo portavo devotamente nel portafogli e glielo consegnai; andammo verso l’abitazione di Luciana e la trovammo che urlava e strepitava contro un personaggio, che scoprii essere l’assistente sociale del comune venuto a portarle via il figlio, per l’inaffidabilità della madre a occuparsi adeguatamente del bambino.
Il mio avvocato la fermò, si qualificò, spiegò la situazione ed esibì il documento che attestava la mia paternità di Nicola; l’assistente sociale si rivolse a Luciana e le chiese se davvero ero il padre di mio figlio, come certificava il documento; lei rispose tra i singhiozzi.
“Si, si: è suo padre; è sempre stato suo padre. Enzo, ti prego, aiutami, non permettere che si prendano nostro figlio; fai qualcosa!”
La sua accoratezza era davvero struggente; l’assistente sociale scrisse qualcosa sul suo verbale e decise.
“Il bambino è affidato a lei, padre naturale; io le consiglierei di prendere in cura anche la madre, in evidente stato di disagio fisico e psichico: se li fa stare in un ambiente sano e agiato, come mi pare che lei possa consentirsi, recuperano in dieci minuti. Domani, venite tutti e due dal giudice per la definitiva attribuzione del bambino.”
La ringraziai e guardai verso Luciana; mise alcune cose in una borsa e mi venne vicino.
“Andiamo a casa tua.”
Mi disse; c’era quasi amore nel suo volto.
Il giorno seguente andammo insieme dal giudice e, in pochi minuti, fu definito che Nicola era mio figlio a tutti gli effetti, anche anagrafici (con la conseguente assunzione del mio cognome e dei diritti derivanti) e Luciana era impegnata a provvedere all’allattamento fino allo svezzamento; naturalmente, obiettò che lei doveva lavorare e che non intendeva rinunciare; il giudice le chiese se riteneva di poter allattare sul posto di lavoro; di fronte al diniego, dovette porle l’alternativa: passare all’allattamento artificiale e liberarsi quindi dall’obbligo o rinunciare al lavoro; Luciana, che in quel periodo scoprivo facile al pianto (ma forse solo per lo stato fisico e per un fatto ormonale) rispose lacrimando che non voleva rinunciare ad allattare al seno suo figlio e che, però, non le avrebbero mai consentito di farlo sul posto di lavoro.
“Senti, Luciana, quanto ti pagano per quel lavoro?”
“Ottocento euro mensili.”
“Ti offro un contratto per fare, per ottocento euro mensili, la tata di nostro figlio.”
Il giudice mi guardò con aria interrogativa; il mio avvocato chiarì.
“Giudice, il signor … gode di un’ottima condizione sociale ed economica; sta semplicemente offrendo alla signora … la possibilità di dedicarsi al loro bambino a tempo pieno, a patto naturalmente di andare a vivere nella sua grande casa in centro e di attenersi alle norme di civile convivenza pacifica tra estranei.”
“Ed io con ottocento euro dovrei provvedere a tutto?”
“Perché? Adesso, che ci fai?”
“Non fraintendere: chiedevo solo come dovrei regolarmi con le cose di casa, tutte, dalla cucina al riscaldamento a tutto insomma: devo pagarteli a parte?”
“Avvocato, per favore, quando stendi il contratto scrivi che, per il ruolo di tata, Luciana avrà ottocento euro mensili e la facoltà di comportarsi come a casa sua, con la disponibilità assoluta e totale delle dotazioni ed anche, se le facesse piacere, del mio amore per lei.”
Il giudice trasalì.
“Ma allora siete innamorati? Perché non decidete di convivere?”
“Sono anni che lo chiedo ma la signora ha bisogno di difendere la sua libertà totale.”
“Ah! Non capisco, ma mi adeguo, come nel famoso tormentone. Adesso, per cortesia, levatevi dai piedi. In questa sala si discutono situazioni veramente difficili: la vostra si risolve con l’equilibrio del vostro avvocato e con un buon talamo nuziale. Andate a risolvere a letto le vostre rogne e lasciatemi lavorare a casi veri. Auguri per il bambino che non è venuto alla luce nella migliore delle situazioni.”
“Nostro figlio avrà una vita meravigliosa, lo prometto a me stesso soprattutto; spero solo che le fisime di sua madre non gli facciano danni.”
“Se tu non fossi il solito imbecille arrogante, non saremmo a questo punto.”
“Scusa … in che cosa sono stato arrogante?”
“Anche adesso: coi tuoi soldi credi di comprare il mondo; ma la vita è più leggera, senza soldi … “
Il giudice non riuscì a tenersi.
“Mi pare che le sia risultata solo più difficile, la vita senza soldi; e adesso i soldi di suo padre possono salvare vostro figlio da una condizione assai precaria. Signora, vada con Dio e si auguri di trovare sempre un uomo buono come Enzo … perché un altro le avrebbe strappato il figlio e l’avrebbe mandata in galera!”
“In galera!? Perché?”
Il giudice se n’era andato e fu l’avvocato a risponderle.
“Luciana, il referto dell’assistente sociale, se non fossimo arrivati in tempo, ti avrebbe procurato una denuncia per maltrattamento di minori …”
“Ma io non stavo maltrattando Nicola; Enzo, credimi, non volevo affatto maltrattarlo …”
L’avocato attivò sul telefonino un video da cui echeggiavano gli urli di lei contro il figlio che malediceva in continuazione.
“Questo video è in internet e ha milioni di visualizzazioni. Per tutti sei una madre indegna che maltratta il figlio di pochi mesi; in tribunale, ti farebbe condannare a molti anni di carcere.”
“Enzo, ti prego, credimi, questo è un altro terribile equivoco: io non pensavo le cose ch dicevo; ero solo esasperata; io voglio bene a Nicola; io amo nostro figlio almeno tanto quanto amo te, con tute le mie forze, con tutta la passione di cui sono capace. Credimi, per favore, ho bisogno che almeno una volta tu mi creda senza dimostrazioni di legge.”
“Amore, che diavolo dici? Certo che ti credo, ti ho sempre creduto, anche quando tu non te ne convincevi. Hai un modo strano di dire le cose, ma lo so che meriti fiducia. Io so che mi ami, a modo tuo, ma mi ami; ed anche io ti amo. Per questo non si capisce cosa ci induce a lottare quasi armati l’uno contro l’altro.”
“Vogliamo andare a casa, per favore? Nicola deve fare la sua poppata.”
continua ...
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